Laura si presenta in abbigliamento sportivo e l’aria da ragazzina, in barba ai suoi 39 anni e al turno di notte appena concluso. Laura è un medico anestesista che lavora nell’Ospedale di Gallarate (ma fa turni anche in altri ospedali lombardi) ed esercita la sua professione anche come volontaria nel 118. È sposata e ha due bambini di 4 e 7 anni.
In questa intervista ci racconta le sue giornate, tra gli impegni professionali e quelli personali. E quanto sia bella e sfidante ( e complessa!) la professione di anestesista.

L’anestesista è una figura forse tra le meno note al grande pubblico, ci racconti prima di tutto cosa fa l’anestesista?
L’anestesista è un medico specializzato che si occupa di gestire il paziente in due ambiti principali, l’intervento chirurgico e l’emergenza. Per quanto riguarda l’intervento chirurgico l’anestesista non solo somministra i farmaci anestetici, ma è colui che decide se il paziente può essere operato o meno. Quindi deve valutare i rischi e i benefici dell’intervento, considerando lo stato di salute del paziente, i rischi connessi ad altre malattie, all’età, allo stato del cuore e chiaramente anche i fattori legati all’intervento, come la durata e quanto è invasivo. Quindi decide se ci sono le condizioni per procedere con l’operazione. Se il paziente viene operato, l’anestesista è responsabile della salute del paziente durante l’intervento e nelle 24 ore successive, si occupa dell’anestesia locale o totale e della gestione del dolore durante e dopo l’intervento. Per quanto riguarda l’emergenza l’anestesista lavora anche in pronto soccorso in cui si occupa del dolore e della gestione del paziente insieme ai colleghi, nel mio caso anche nell’emergenza sul territorio.
Quando hai deciso di diventare anestesista?
Non avevo mai pensato di diventare un medico fino a quando all’età di 15 anni ho avuto un incidente in motorino che mi ha costretta a stare diversi mesi in ospedale. Sono stata operata più volte ad una gamba e ho sofferto molto il dolore. Questa esperienza, che in alcuni può creare un’avversione per l’ospedale, mi ha invece avvicinato al mondo della medicina. Ricordo che quando incontravo l’anestesista per me significava mettere fine alle mie ansie e ai miei dolori. Da allora in me è nato il forte desiderio di aiutare i pazienti ad avere meno dolore. Così ho deciso di studiare medicina e poi specializzarmi in anestesia. Durante gli anni di università ho iniziato a fare la volontaria in Croce Rossa e mi sono immersa nel mondo dell’emergenza e dell’urgenza. Grazie all’incontro con i medici che prestavano servizio in automedica, e che provenivano da realtà ospedaliere all’avanguardia, ho deciso che avrei fatto anche questo servizio, che infatti svolgo ancora oggi.
Alcune persone intorno a me mi consigliavano di scegliere una specialità diversa, meno impegnativa e che mi permettesse un giorno di aprirmi uno studio, soprattutto essendo una donna. Ma io sono sempre stata convinta di voler fare l’anestesista e oggi sono contentissima di aver perseguito questa scelta.
Cosa ci puoi raccontare della tua formazione?
Il mio periodo di specializzazione è stato molto importante, ricordo bene interventi chirurgici molto impegnativi che mi ero preparata nei giorni precedenti. All’epoca, non ero ancora io la responsabile della sala operatoria essendo una specializzanda, ma mi sentivo totalmente coinvolta. La persona per me più significativa di quel periodo è stato un anestesista che oggi considero il mio maestro e che mi ha aiutata con il suo esempio nella gestione degli interventi e mi ha sempre incoraggiata e rassicurata.
Durante i cinque anni di scuola di specialità ho assimilato tantissimo. Ogni giorno era un’avventura e imparavo qualcosa di nuovo, tornavo a casa stanca, ma felice.
In quel periodo mi sembrava impossibile diventare come lui e riuscire a gestire questa grande responsabilità, ma lui mi ripeteva sempre che aver visto in prima persona la gestione del caso era la cosa principale e che mi sarei ricordata di tutti i suoi insegnamenti, come ad esempio il primo e più importante: non fare danni.
Devo dire che da quando ho iniziato a gestire da sola la sala operatoria e a prendere le decisioni è stato proprio così. Gli anni della specialità stati i più impegnativi e preziosi della mia formazione e della mia vita, soprattutto grazie ai maestri che ho incontrato.
Come si svolge la tua giornata?
Lavoro sui turni quindi non c’è mai una giornata uguale all’altra. Quando lavoro in sala operatoria mi sveglio alle 6.00 e arrivo in sala prima che arrivi il paziente (solitamente alle 8.00). Mi piace arrivare presto perché così posso prepararmi al meglio e pensare a come gestire le operazioni della giornata. Amo molto lavorare in sala operatoria.
Faccio anche turni da 12 ore e posso essere in sala per tutto il giorno oppure solo alla mattina e poi visitare i pazienti per il giorno successivo. A volte faccio dei turni nell’altro reparto in cui lavoro, la rianimazione. Faccio anche consulenza al pronto soccorso se necessario e gestisco i trasporti dei pazienti critici dal pronto soccorso verso ospedali più grandi.
Quando il turno finisce nel pomeriggio mi fiondo a recuperare i miei due bambini a scuola e passo del tempo con loro. Inizia il secondo lavoro.
Quando faccio la notte invece non riesco quasi mai a dormire prima del turno e il giorno dopo sono comunque attiva tra la spesa, la casa. Mi prendo anche del tempo per me e per stare con le amiche. Non mi fermo mai.
Quali sono le difficoltà nel tuo lavoro?
Nel mio lavoro le maggiori difficoltà ci sono quando a volte vorresti fare di più, ma non puoi perché hai le mani legate da decisioni dall’alto. Siamo in difficoltà quando veniamo spostati in un altro ospedale improvvisamente e ci si trova a lavorare con un team di specialisti che non si conosce, una sala operatoria diversa e non si sa dov’è il materiale e i farmaci o ci sono macchinari diversi. È una difficoltà che c’era anche prima del periodo COVID.
Il periodo COVID è stato difficoltoso soprattutto perché era una malattia nuova e all’inizio non sapevamo come gestire il paziente. La difficoltà respiratoria e la polmonite erano diverse e mancava una terapia mirata.
Un aspetto difficile della nostra professione e che dopo il COVID vivo ancora in modo più difficoltoso, è quello di dover prendere la decisione di non dare indicazione alla rianimazione: dobbiamo fare una valutazione dei rischi e dei benefici e valutare se il paziente può essere rianimato oppure se farlo significherebbe prolungare le sue sofferenze.
Questo aspetto durante il periodo della pandemia è stato molto gravoso perché c’erano tanti pazienti ed essere affetti da COVID-19 per molte persone ha davvero fatto la differenza tra vita e morte. Inoltre, dovevamo agire in fretta e se un paziente non ce la faceva dovevamo passare subito al successivo, magari avvisando la famiglia in tutta fretta.
Solitamente in terapia intensiva c’è tanta umanità e ci prendiamo il tempo per fare questi passaggi nel modo migliore, purtroppo durante il periodo più intenso della pandemia non potevamo permettercelo.
Anche la gestione dei pazienti pronati è stata difficoltosa: queste persone devono assolutamente dormire ed essere con i muscoli rilassati mentre sono in posizione prona e collegati al ventilatore. Non è una cosa semplice soprattutto quando sono numerosi.
Come concili la vita professionale con la tua vita familiare?
Non la concilio! (ridiamo) Dormo poco, ho un grande aiuto da parte dei nonni. Lavorando sui turni faccio fatica a trovare una babysitter. Mio marito in alcuni giorni della settimana è in smartworking ed è un grande aiuto soprattutto per portare a scuola i bambini. Anche lui oltre al lavoro è molto attivo in altri ambiti sul territorio, ma ce la facciamo e i miei bimbi crescono sereni. C’è di bello che quando sono di riposo o faccio il turno di notte riesco ad andare a prenderli e stiamo insieme, se facessi un altro tipo di lavoro con orari 8-18 non riuscirei. Comunque faccio un lavoro che amo e mi appassiona e credo che questa mia serenità la sentano anche loro.
Ultima domanda: cosa consiglieresti a un giovane che vorrebbe diventare anestesista?
Consiglierei di farlo assolutamente perché è un lavoro bellissimo. Serve però una grande motivazione e impegno per affrontare il percorso formativo. È importante sfruttare appieno gli anni della scuola di specialità che sono il momento più prezioso per imparare da tutte le figure affianchiamo. In quegli anni la formazione deve essere la priorità per noi stessi e anche per i pazienti che un giorno incontreremo.
DA SAPERE

Come si diventa anestesista?
- Occorre frequentare sei anni di medicina, poi si fa un tirocinio e si accede alla scuola di specialità che dura cinque anni.
- Oggi, anche durante la specializzazione, si può accedere ai concorsi di ruolo in ospedale perché c’è molta carenza di medici anestesisti.
- Solitamente agli specializzandi che vincono i concorsi vengono affidate sala a bassa intensità, quindi più semplici da gestire.