In questa testimonianza sull’anoressia, raccontiamo la storia di Martina Ronchi, una bellissima studentessa di Medicina di 21 anni che viene da una terra, la Sardegna, dove il sole è di casa. Ma nella sua vita ci sono stati momenti di buio difficili da superare. Ha sofferto (ma ci ricorda che è meglio non parlare al passato, perché è una malattia che tende a recidivare) di anoressia nervosa, un disturbo alimentare che provoca un’errata percezione del corpo e spinge ossessivamente ad occuparsi del proprio peso.

Martina Ronchi
Fra i comportamenti indotti dall’anoressia, l’adozione di diete eccessivamente restrittive, la pratica di esercizio fisico sproporzionata rispetto alle proprie effettive necessità, il compulsivo bisogno di pesarsi e la conta delle calorie introdotte. Le conseguenze, soprattutto in un fisico ancora in sviluppo, possono essere devastanti.
Si tratta, infatti, di una patologia che insorge prevalentemente durante l’adolescenza, ma che oggi tende a comparire anche in altre fasce di età. Per Martina l’insorgenza effettiva dei sintomi è avvenuta quando aveva 13 anni, ma in realtà i presupposti per la loro esplosione si erano creati già da tempo.
L’anoressia e il dovere della perfezione
“Quando ero bambina” racconta Martina “non avevo un buon rapporto con mia mamma: lei era molto presente, ma non come avrei voluto io. Non era molto “fisica” con me, a causa di una serie di difficoltà sue, di traumi di cui abbiamo parlato quando abbiamo cominciato a seguire la psicoterapia”.
E crescendo le cose non sono migliorate…
“Da ragazzina ero perfezionista in tutto: a scuola facevo un dramma se anziché 10 prendevo 9, nello sport e nella musica dovevo essere la più brava. Sentivo il peso di dover essere sempre perfetta. Alla scuola media sono stata vittima di bullismo per il mio aspetto fisico.
Fino a quando, durante l’estate fra la prima e la seconda superiore, ho cominciato a incanalare tutti questi pensieri ed eventi nel mio rapporto con il cibo. Ho iniziato a ridurre le porzioni, a saltare i pasti. Insomma, a manifestare tutti i sintomi tipici dei disturbi alimentari.
Non sapevo dare un nome al malessere che sentivo
Contrariamente ai dati statistici sui disturbi alimentari, che mostrano quanto sia spesso prolungato il periodo che intercorre fra l’esordio dei sintomi e il primo consulto presso uno specialista, per Martina questo intervallo di tempo è stato relativamente breve.
“Lo so, non è un fatto scontato: in genere quando si ha un disturbo alimentare si fa molta fatica a prendere consapevolezza del problema. Ma io stavo davvero molto male: mi ricordo che quell’estate ho perso quasi 10 chili in 2 mesi. Mia mamma mi guardava molto preoccupata e, ad un certo punto, mi ha detto: “Martina, cosa sta succedendo? C’è qualcosa che non va”. Io non sapevo dare un nome a quello che avevo, né sapevo cosa fossero i disturbi alimentari.
Da qui la visita dalla pediatra, che, ipotizzando una correlazione fra i sintomi e l’esordio di un disturbo alimentare, raccomandò un consulto neuropsichiatrico, al quale “non ho opposto nessuna resistenza perché stavo troppo male”. Martina precisa, ma capiremo dopo cosa significhi: “Non stavo bene in quello stare male…”.
E prosegue: “Non ho fatto fatica a rivolgermi alla specialista: la fatica è venuta dopo”.
Il bisogno di rimanere “piccola”
“Il disturbo alimentare è spesso una malattia che una persona vuole tenere con sé perché rappresenta una stampella alla quale appoggiarsi, ti concede l’illusione di poterne trarre vantaggio. Nel mio caso, il presunto vantaggio era rappresentato dal rapporto con mia mamma, dal suo affetto. Nella mia testa è scattato un pensiero malato: se sto male lei mi abbraccia, mi coccola, mi dà tutte quelle attenzioni che ho voluto per tanto tempo”.
Quindi era questa la fatica di cui parlavi…
“Il lavoro grosso è stato quello di scardinare questa associazione, di mollare il sintomo e la malattia. Attraverso la terapia, sia individuale sia familiare, ho appreso come ricostruire un rapporto con mia madre che non avesse come condizione di partenza il fatto di essere malata. Ho imparato a lasciare andare il sintomo e tutti i “vantaggi” che mi dava, che poi vantaggi non erano”.
Le rassicurazioni che Martina cercava così spasmodicamente alimentavano, di fatto, le sue insicurezze.
“Dietro il non mangiare, il perdere peso c’era il desiderio di non crescere, di fermare il tempo, la paura di non essere all’altezza del mondo”.
Il richiamo ad una perfezione inesistente
In uno dei suoi intensi post su Instagram, Martina parla di “gabbiette mentali” da infrangere per tornare a stare bene: le chiedo a cosa si riferisca e se esistano, secondo lei, associazioni mentali sbagliate, ma difficili da abbandonare sull’anoressia nervosa.
“Uno dei pregiudizi più diffusi è quello che le ragazze si ammalino di anoressia perché vogliono diventare modelle. Sicuramente viviamo in una società profondamente intrisa dalla yes culture e siamo bombardati, sui social e nella stampa, di immagini di corpi e visi perfetti, anche se si tratta di un richiamo ad una perfezione inesistente, perché il più delle volte queste fotografie sono manipolate e modificate.
Detto questo, le persone non si ammalano perché si confrontano con la foto di Chiara Ferragni o perché guardano le storie postate da influencer che promuovono abitudini alimentari restrittive. Ma questi messaggi sono un potenziale fattore di rischio per una persona che vive già una sua sofferenza, una forma di insicurezza o un senso di inadeguatezza”.
Dalla malattia mentale non si guarisce per buona volontà
Un altro tabù della nostra società è rappresentato dai farmaci: domando a Martina cosa rappresentino e abbiano rappresentato per lei, nel percorso di cura.
“Io ho ricevuto una diagnosi di anoressia nervosa in comorbidità con un disturbo dell’umore (non so se sia nato prima l’uno o l’altro) e per questo mi sono stati prescritti farmaci. All’inizio ero molto reticente: non li voglio, ce la faccio da sola, non ne ho bisogno. In realtà ho reagito opponendomi anche perché ne avevo paura.
Poi ho incontrato una psichiatra che mi ha resa parte attiva della terapia, anche spiegandomi il motivo per cui mi stava prescrivendo un certo farmaco, gli effetti che avrebbe avuto e i benefici che ne avrei potuto trarre e, quindi, ho cambiato visione. Vedi, quando ci ammaliamo nel corpo assumiamo farmaci per curare l’organo che ne ha bisogno. Il cervello è un organo come tutti gli altri: se si ammala deve essere curato”.
Qui ci scontriamo con un ulteriore, grande tabù, quello della malattia mentale.
“Molti non le attribuiscono la dignità di una vera e propria patologia: se va bene è un capriccio, se va male una moda. Le persone ti dicono: se ti impegni guarisci, è tutta una questione di buona volontà. Non aiuta il fatto che l’anoressia nervosa sia definita come un disturbo alimentare, perché il termine disturbo non è ritenuto equivalente a malattia. Ma l’anoressia nervosa è proprio una malattia, peraltro molto complessa e che provoca una grande sofferenza”.
L’anoressia mi ha fatto capire tante cose di me e degli altri
Nelle sue riflessioni, Martina fa un bel riferimento al Kintsugi, l’arte giapponese di riparare i cocci con l’oro creando cicatrici che aumentano il pregio degli oggetti danneggiati. Forse anche lei si sente come un bel vaso che ad un certo punto si è rotto.
“Sì”, sospira. Segue una lunga pausa silenziosa.
“L’ho pensato man mano che andavo avanti nel percorso di psicoterapia, che ho seguito per anni e che continuo tuttora a seguire. Sai, i disturbi alimentari sono malattie croniche, possono dare delle ricadute. Io ne ho avuta una, tremenda, durante il lockdown: la pandemia è stata per me un trauma particolarmente forte”.
Un’altra ferita, un’altra cicatrice.
“La malattia mi ha cambiata in meglio: mi ha permesso di fare un percorso di crescita e conoscenza personale, di capire tante cose di me e degli altri. Ero perfezionista e mi sono “smollata”, anche nelle relazioni con gli altri. Non posso certo dire di essere contenta di essermi ammalata di anoressia, ma, facendo un bilancio, posso dire che mi ha portato anche molte cose buone”.
Mi sono salvata per non lasciare mia sorella
A cosa ci si aggrappa quando le cose si mettono male?
“Ricordo il momento in cui ho toccato il fondo. Aspettavo di essere ricoverata in una struttura specializzata, dopo una prima degenza non molto fruttuosa in ospedale a 14 anni. Ho seguito tutta la procedura, mi sono sottoposta ad una prima visita, in seguito alla quale sono stata messa in lista d’attesa”.
Passano 3 mesi. In cui il malessere si spingeva verso i suoi picchi peggiori, soprattutto per la prospettiva di doversi allontanare a lungo da casa: non essendoci strutture adeguate in Sardegna, Martina era destinata al ricovero presso un centro specializzato per la cura dei disturbi alimentari che si trova in Umbria.
“Durante quel periodo c’è stato un momento in cui sono salita sul balcone con l’intenzione di buttarmi. In quel frangente mi sono aggrappata a mia sorella: non mi sono buttata di sotto per lei, che era lì in casa, perché non volevo lasciarla. Se non ci fosse stata lei, probabilmente lo avrei fatto”.
Non intervengo. Mi illudo che sia per la volontà di non interrompere il suo racconto, ma più verosimilmente è perché sono paralizzata, pietrificata. Non mi vengono in mente interiezioni pertinenti. Ascolto.
“Stavo veramente molto male, ero in uno stato fisico, ma soprattutto mentale…grave. Ero disperata, non ce la facevo più”.
La svolta
Le cure ti sono servite, ti hanno aiutata?
“Il ricovero in Umbria sì, il primo in ospedale no. Ci tengo a ribadire che queste patologie devono essere curate in centri specializzati da personale altamente qualificato e formato. In genere, il ricovero in ospedale è una soluzione d’emergenza, che viene messa in atto quando c’è una situazione fisica o psicologica al limite: nel mio caso il primo ricovero, in ospedale, nel reparto di Neuropsichiatria era giustificato dal fatto che avevo già pensieri suicidi. Sono rimasta lì un mese e mezzo, venivo obbligata a mangiare, ho preso un po’ di peso, ma non ho lavorato sui pensieri ossessivi, sui motivi che mi stavano spingendo a manifestare quei sintomi. Di conseguenza, quando sono uscita ho ricominciato a fare tutto quello che avevo fatto prima se non peggio”.
E il ricovero in residenza?
“È stato la svolta. Intanto è durato 3 mesi e poi è avvenuto a Palazzo Francisci (Todi), presso una struttura che ha come Responsabile la dottoressa Laura Dalla Ragione. Mi hanno aiutata tanto. L’attività è strutturata: si fanno terapie di gruppo, colloqui individuali, consulenze nutrizionali attraverso i quali puoi acquisire strumenti che ti consentono di uscire dal centro non tanto “guarita” (non si guarisce dall’anoressia nervosa in 3 mesi!) ma con gli strumenti necessari ad affrontare i periodi critici, a rialzarti se cadi”.
Mi hanno dato una cassetta degli attrezzi
Il rapporto con il tuo corpo è cambiato?
“Uno dei sintomi più forti che avevo è la dispercezione corporea. Quando una ragazza malata di anoressia dice che si sente grassa, enorme (lo facevo anche io, succedeva anche a me), si vede veramente così: non conta che tutti intorno si domandino come sia possibile, dato il suo reale peso.
Mi è capitato di nuovo di pensarlo, nei momenti difficili. Ma sapevo, a quel punto, che era la malattia a parlare, che io non ero veramente come mi vedevo. Facevo un respiro e andavo avanti. Io so che, se mi succede qualcosa di brutto, che mi fa stare male, il mio cervello produce un pensiero automatico: oggi non mangio. Allora mi fermo e mi domando: perché non dovrei mangiare, cosa c’entra il cibo con quello che è successo?”.
Un bel passo avanti…
“Un tempo un dispiacere mi avrebbe fatta entrare in una delle gabbiette a cui mi riferivo, cioè in una serie di pensieri automatici, ossessivi, come fare iperattività fisica, contare le calorie, pesare tutto quello che si mangia, pesarsi prima di mangiare e dopo che si è mangiato, tutti i giorni, più volte al giorno. Dominando cose facilmente controllabili, come il peso, le calorie, il numero di chilometri percorsi cerchi di dominare qualcosa di meno controllabile, in primis le emozioni. Mi ricordo che quando mi veniva chiesto come stessi, rispondevo che non lo sapevo: non ero neppure in grado di definire le emozioni che provavo, vivevo una specie di azzeramento emotivo, di congelamento. Senti e soffri talmente tanto che scegli di non sentire più nulla”.
C’è ancora molto da fare
Quale indicazione puoi dare ad una o un giovane in difficoltà, che potrebbe soffrire di un disturbo alimentare?
“Istintivamente gli direi di rivolgersi ad uno psicologo, un professionista che può capire se i sintomi sono compatibili con quelli dei disturbi alimentari e, eventualmente, indirizzare verso un neuropsichiatra o uno psichiatra specializzati nel trattamento dei disturbi alimentari, le figure di riferimento per la diagnosi di queste patologie.
Malgrado in Italia siano presenti centri molto validi, in molte Regioni manca una rete assistenziale, mancano professionisti formati per il trattamento dei disturbi alimentari. Io stessa prima di trovare una psicologa in grado di capire quale fosse il mio problema ne ho cambiate due. Con altre ragazze, alcuni medici e Associazioni (anche di genitori) abbiamo manifestato nell’autunno scorso anche davanti al Ministero della Salute per denunciare questa situazione, la morte (nell’ultimo anno) di 4.000 persone per disturbi alimentari nel nostro Paese (fra questi, una mia cara amica) e la difficoltà nel trovare aiuto.
Qualcosa si è mosso, i disturbi alimentari sono stati inseriti nei Lea come capitolo a sé stante, ma c’è ancora tanto da fare a livello assistenziale”.
Già, i recenti aggiornamenti in materia disturbi alimentari e servizio sanitario ci autorizzano ad un pacato ottimismo, ma le difficoltà da superare, gli obiettivi da raggiungere sono ancora tanti.