Sulla carta sembra tutto semplice. Nella realtà no. Ricevere una diagnosi di autismo è già di per sé difficile, ma il dopo non è più semplice. Molte famiglie, una volta ricevuta la diagnosi, non sanno come procedere, a quali centri rivolgersi, quali terapie o trattamenti attivare. Le Regioni viaggiano in modo autonomo, alcuni servizi offerti in una città non sono presenti in un’altra. I centri e gli ospedali non hanno tutti le competenze adeguate per diagnosticare e trattare questa condizione. Tra i medici non c’è la stessa competenza nel diagnosticare l’autismo. Eppure non è una questione economica, i soldi ci sono.

Ne abbiamo parlato lo scorso primo marzo in uno degli Incontri di MEDORA, “Autismo, dalla diagnosi alla presa in carico” insieme a
- Monia Gabaldo, pediatra genetista, mamma di tre bimbi autistici. Lei e suo marito hanno scoperto di essere autistici loro volta. Per questo, si definiscono “una famiglia nello spettro” e fanno molta divulgazione e informazione sui social, aiutando le altre famiglie con consigli utili (Il mondo di Derek su Facebook o Autismo ad alto funzionamento su Youtube).
- Chiara Pezzana, neuropsichiatra infantile, direttore sanitario e clinico del Centro per l’Autismo di Novara e presidente dell’Associazione per l’autismo E. Micheli.
- Giovanni Marino, presidente dell’Associazione Nazionale Genitori persone con Autismo (ANGSA) e fondatore della Fondazione Marino che si occupa di adulti autistici.
L’autismo è una condizione che interessa diverse persone in Italia, bambini e adulti. Tuttavia ci sono ancora molte difficoltà nella diagnosi, e quindi nel riconoscere per tempo questa condizione, anche se lo scoglio più duro è cosa succede dopo.
Una volta ricevuta la diagnosi di autismo molte famiglie, infatti, brancolano nel buio: non sanno a chi rivolgersi, non sanno se ci sono e dove sono i centri specialistici, quali sono le figure sanitarie di riferimento, in cosa consisterà la terapia, la riabilitazione, quante ore, che cosa passa il servizio sanitario nazionale o cosa non passa. Tante domande e poche le risposte.
L’Italia poi è un Paese suddiviso in 21 Regioni che hanno sistemi diversi e viaggiano a velocità differenti. Può succedere che chi vive in un certo territorio accede più velocemente ai servizi sanitari dedicati rispetto a un altro, poiché la disuguaglianza regionale purtroppo è ancora molto accentuata.
Cerchiamo allora di fare un po’ di chiarezza e di dare un primo orientamento alle famiglie che ricevono una diagnosi di autismo.
Difficoltà nella diagnosi
Spesso la diagnosi arriva quando il bambino è già grandino (3-5 anni) e dopo esser passati da un pediatra all’altro, perché spesso non si riesce, in tempi brevi, a centrare il problema.
“Mi dicevano che i miei tre bambini non parlavano perché gli parlavo in inglese, oppure che non ero materna o non avevo il tono di voce adeguato” – ci dice Monia Gabaldo – “poi, grazie a una collega, che aveva ricevuto una diagnosi di autismo per il figlio, siamo riusciti ad avere dei contatti per delle visite specialistiche, che hanno confermato la gravità e le caratteristiche di tipo autistico, prima per i miei bambini e poi per noi genitori”.
La prima reazione a una diagnosi di autismo può essere quasi di sollievo, finalmente si sa qual è il problema, cosa c’è che non va. Poi arriva la domanda: e ora cosa faccio? Ci si rivolge al Servizio sanitario pubblico, ma lo scontro con la realtà arriva subito: i posti per il trattamento terapeutico sono pochi, i terapisti pure (psicomotricista, logopedista, psicologa, ecc.) e le liste di attesa lunghissime, 6-8 mesi almeno.
Non resta, quindi, che rivolgersi ai privati.
“Dopo sei mesi mi chiamano dalla ASL ma io avevo già iniziato un percorso privatamente – continua Monia Gabaldo – “tra l’altro, non avrebbero preso in carico tutti e tre i bambini insieme, quindi l’unica strada era la riabilitazione privata a casa. Ed è stata la soluzione più adatta per noi. Ma non tutti hanno questa possibilità economica. Ho anche fatto delle riprese per mostrare ai terapisti come andava la riabilitazione e grazie ad esse ho potuto modificare i comportamenti che non erano adeguati alla situazione. Poi ho iniziato a fare i video degli esercizi da condividere con tutti quei genitori che, invece, non avevano nessun riferimento e che potevano personalizzarli e provare a farli a casa”.
Insomma, è la famiglia a dover prendere in carico primariamente il trattamento di cura dei propri figli o familiari con autismo, spesso andando a tentativi, dandosi da fare, affrontando un impegno economico piuttosto oneroso, rivolgendosi ai professionisti privati. E le iniziative di aiuto come quelle di Monia non possono che tornare utili e sostenere le famiglie in una sorta di mutuo soccorso, per sentirsi meno soli e condividere le informazioni così frammentate e spesso insufficienti per affrontare il percorso terapeutico.
Le Linee guida internazionali
Che cosa prevedono le Linee guida internazionali per la diagnosi e presa in carico delle persone con autismo? È l’Istituto Superiore di Sanità ad aver emesso le linee guida nel 2011 (e breve usciranno quelle aggiornate) e il primo argomento affrontato è proprio il trattamento mediato dai genitori che è sicuramente molto efficace. È anche evidenziato che, dopo la diagnosi, il trattamento terapeutico si deve attivare rapidamente. Quando, infatti, si riesce a fare diagnosi precocemente, nei primi anni di vita (ma non sempre è possibile), quello che si dovrebbe fare, immediatamente, è iniziare la terapia.
Anche se si è in dubbio sulla diagnosi, come può capitare, ad esempio, in un bambino di 18 mesi, in cui non c’è ancora certezza di autismo. È meglio intervenire comunque, non vale la “vigile attesa”.
Ma quello che succede quando una famiglia cerca di rivolgersi ai servizi sanitari, dipende dalle Regioni. “Alcune hanno dei progetti specifici per l’autismo, come il Piemonte ad esempio” – ci spiega Chiara Pezzana – “ma hanno lunghe liste di attesa perché sono strutture sottodimensionate a quella che è la prevalenza vera dell’autismo: solo in Italia è 1/77, nel resto del mondo 1/44”. Numeri importanti.
L’attesa poi è per i trattamenti as-usual cioè quelli di routine, come la psicomotricità e la logopedia, che sono certamente utili, “ma quello che invece è davvero utile”, continua Chiara Pezzana, “è un trattamento specifico per l’autismo, soprattutto nei bambini piccoli, valido ed efficace scientificamente, cioè un tipo di lavoro basato su alcuni principi e procedure da portare avanti con una certa intensità. Per questo motivo, quando un trattamento è mediato anche dai genitori, è ad altissima intensità, perché il genitore può adottare forme di gioco che richiamano al trattamento. L’intensità media, infatti, dovrebbe essere dalle 15 alle 30 ore a settimana per i bambini piccoli. Solo così gli cambia la vita”.
Purtroppo non tutte le famiglie ci riescono ed è lì che i servizi sanitari pubblici dovrebbero fornire un sostegno concreto.
“Infatti, la nostra associazione (Associazione per l’autismo E. Micheli) sta portando avanti un progetto per i bambini con disabilità grave e situazioni familiari e sociali molto difficili” – prosegue Chiara Pezzana – “in cui non è possibile per queste famiglie fare terapia a casa ma solo in un centro specialistico; sono quindi gli operatori a portare avanti la riabilitazione e la famiglia fa quel che può. È una grossa sfida, perché la quantità di ore necessarie per la terapia, indicate anche dalla letteratura scientifica, non si riesce ad applicare nei servizi sanitari pubblici”.
E non è solo una questione di fondi, i soldi ci sono, è più un problema di competenze.
Vediamo perché.
La situazione organizzativa in Italia
Come già evidenziato, le 21 Regioni italiane non solo si muovono diversamente, ma sono anche economicamente indipendenti. L’autismo poi gode di una legge, la 134/2015 ed è stato inserito nell’art. 60 del decreto sui nuovi LEA (Livelli Essenziali di Assistenza).
Tuttavia, pur aggiornando i livelli di assistenza, il governo non ha stanziato i fondi necessari alle Regioni affinché potessero rispondere alle nuove misure previste.
Per questa ragione c’è una differenza anche marcata tra ciò che è scientificamente raccomandato e la modalità e i tempi con cui le strutture sanitarie regionali si adeguano. “Nonostante la disparità di velocità e di adattamento” – ci dice Giovanni Marino – “quasi tutte le Regioni sono strutturate per l’autismo, per offrire interventi di logopedia e psicomotricità ma non sono proprio queste le metodologie più adatte per rispondere ai bisogni del bambino con autismo. Quelle indicate nelle linee guida sono gli interventi cognitivo-comportamentali. La lentezza con cui il sistema sanitario si adegua, fa si che, nonostante la scienza dimostri ampiamente l’utilità di questo tipo di intervento, non ci sia un aggiornamento a livello dei servizi. Questo comporta l’esistenza di centri obsoleti e sovraccarichi di richieste degli utenti in cui anche per la psicomotricità ci sono mesi di attesa. Un intervento certamente utile, ma che è più un palliativo rispetto a ciò che invece serve a un bambino con autismo”.
Per colmare questo vuoto sono nati quindi centri privati, più o meno legittimati a fornire questa terapia, e le famiglie che possono permetterselo vanno da loro. “Ma chi è costretto a ‘comprare’ un percorso terapeutico previsto dalle linee guida ma non somministrato dal SSN per sua inadempienza” – continua Marino – “può chiedere il rimborso allo Stato. Quindi, le famiglie che non possono usufruire del servizio pubblico o dei centri convenzionati, si rivolgono al privato e poi possono farsi rimborsare dalle ASL.
Questo meccanismo, tuttavia, ha consentito a queste realtà private di proliferare, costringendo le famiglie a spendere molti soldi per avere un ritorno, dal punto di vista terapeutico, spesso non adeguato. C’è allora uno spreco di denaro pubblico, ma anche un danno per il bambino che, di fatto, non può usufruire di un approccio curativo raccomandato dalle linee guida. Il paradosso, pertanto, è che lo Stato spende molto denaro con i rimborsi, ma il bambino non si avvale del trattamento terapeutico adeguato, nonostante i soldi”.
Come si diventa “genitori terapisti”?
Lo spiega Monia Gabaldo, i cui 3 figli ( 5 e 3 anni) presentavano tutti i sintomi tipici dell’autismo (selettività alimentare, nel vestiario, niente aggancio visivo, stereotipie, ecolalia, disprassia, niente uso del linguaggio, non rispondevano al loro nome, non giocavano tra di loro, né si guardavano) e la situazione era abbastanza drammatica. Avevano il pannolino perché non erano autonomi ed era impossibile farli uscire di casa. “Non avevo scelta, dovevo capire cosa fare e come farlo. E l’ho fatto con l’aiuto di una psicologa, che è venuta a casa mia e mi ha spiegato quali erano gli obiettivi da raggiungere e come, ma soprattutto come funziona la neurodiversità. Tutte cose che ho colto subito, perché essendo anch’io autistica, la mia mente funziona nello stesso modo di quella dei miei figli. Allora ho iniziato ad applicare gli schemi per affrontare la quotidianità, dai rumori, alle luci ai vestiti. Ho fatto un corso di comunicazione aumentativa alternativa e l’ho applicato. Ho preso tutto l’aiuto che ho potuto. Certamente non posso consigliare a tutti di fare altrettanto. Però, ci sono dei terapisti che possono aiutare, ad esempio con il coaching e il parent training. Nel mio caso, il grande vantaggio è avere una mente “neurodiversa” che ragiona con schemi, video e immagini. Avendo io stessa queste difficoltà, ho applicato le stesse strategie ai miei bambini. Riesco, infatti, ad anticipare le loro criticità, costruendo degli schemi, li rendo più tranquilli e sereni e questo migliora l’apprendimento. Sono migliorati tantissimo. Li ho letteralmente “addestrati” a cosa dire, quando dirlo e come dirlo, cosa fare, cosa non fare. Loro sono dei veri soldati, ma l’arma più efficace che ho scoperto di avere è il sorriso, essere sereni, proporre tutto in positivo; un’altra è aiutare gli altri, insegnarli a farlo: aiuta me, aiuta tuo fratello, l’amichetto a scuola. Più aiutavano gli altri, più si rendevano conto di esserne capaci e più imparavano. In questo modo stanno ottenendo risultati straordinari”. Sono consigli che scaturiscono da un’esperienza specifica, ma possono essere comunque molto utili, anche se, in questo caso, la carta “vincente” è stata proprio l’autismo di Monia.
Rivedi la live dello scorso 1 marzo, "Dalla diagnosi alla presa in carico - sfide e difficoltà nella gestione dell'autismo":
Gli esami clinici per avere una corretta diagnosi
Allo stato attuale, la diagnosi si basa sull’osservazione del comportamento del bambino, come ci spiega Chiara Pezzana.
Non ci sono esami clinici che danno certezze. Esistono però dei test gold standard che consentono di comprendere alcuni aspetti del comportamento tipici dell’autismo e permettono di porre diagnosi.
Alcuni esami però possono essere necessari, perché spesso ci sono delle co-occorrenze nei disturbi dello spettro, come l’epilessia, ad esempio, per cui è importante eseguire un elettroencefalogramma, a volte una risonanza magnetica.
Certamente è necessaria una buona analisi genetica, anche se non in tutte le persone si trova la mutazione genetica che spiega l’autismo, non per tutti si trova una ragione clinica.
La diagnosi in età adulta
“Anche gli adulti sono presi in carico dal servizio di neuropsichiatria infantile della ASL” – ci spiega Giovanni Marino – “per un errore concettuale di definizione di autismo infantile, che risale a molto tempo fa, come se l’autismo da adulti guarisse. Invece ci sono gli autistici che poi diventano adulti, mentre la neuropsichiatria infantile è chiamata in causa fino ai 18 anni di età. Manca quindi un’adeguata preparazione e attenzione per gli adulti autistici. In realtà per l’autismo bisogna prevedere percorsi dedicati, sia per quanto riguarda i centri di valutazione, sia per i servizi ambulatoriali pubblici o privati, sia per i servizi residenziali. In assenza di questi percorsi, il bambino o l’adulto possono essere inseriti all’interno di un gruppo dove l’autismo non è più un elemento da tenere sotto controllo. Si rischia, quindi, che un adulto autistico, che ha avuto la fortuna di fare un percorso appropriato in età evolutiva, perda poi tutte le abilità che ha conquistato, perché non c’è per lui un servizio specifico.
La battaglia che le famiglie e le associazioni portano avanti è proprio quella di ottenere dalle Regioni servizi dedicati per l’autismo, già previsti dai LEA. Si tratta solo di applicarli. Perché c’è sempre uno spazio di miglioramento nell’autismo, sia da bambini che da adulti ma occorre lavorare costantemente”.
Quanto contano la competenza e la formazione degli operatori
C’è un problema di competenze e di formazione dei team dedicati, al di là delle carenze di personale e dei finanziamenti, per una condizione come lo spettro autistico, così eterogenea e diversa per ogni persona, con diverse manifestazioni e percorsi che non possono essere omologabili.
“L’allenamento e l’apprendimento devono essere continui e vanno rimodulati a seconda dell’età e delle singole situazioni, senza mai perdere la speranza” – ci dice Monia Gabaldo –“imparando insieme, nella scuola come nello sport, condividendo con gli altri le nostre difficoltà, trovando nuove strategie, anche con l’aiuto di persone non esperte ma che sanno aprire mente e cuore”.
“C’è anche un problema di competenza a livello dei pediatri che vanno sensibilizzati” – aggiunge Chiara Pezzana. “Se non si fa rete, se non si lavora tutti insieme, anche le buone prassi cadono nel vuoto. C’è da entrare nelle università per parlare di autismo in maniera aggiornata, c’è da costruire percorsi di formazione per i terapisti, genitori e insegnanti. Insomma c’è tanto da fare. Ma una delle cose più importanti è essere consapevoli che nessuno, né il centro specialistico, né la famiglia, né il pediatra, né la scuola possono sostenere da soli il bisogno di cura a 360 gradi. Il mio consiglio ai genitori è trovare qualcuno che li aiuti a fare rete e a sfruttare tutte le risorse possibili, perché spesso i mezzi ci sono e sono solo da mobilitare.
L’obiettivo da raggiungere è che le linee guida dell’ISS siano applicate e che i trattamenti siano appropriati. Un percorso di cura adeguato nell’infanzia consentirà di avere dei benefici anche da adulti”.
DA SAPERE
A chi rivolgersi
L’offerta dei servizi per questi disturbi in Italia è molto variegata e spesso non specifica e non aggiornata, ma soprattutto priva delle giuste competenze degli operatori. Lo è per i bambini ma lo è soprattutto per gli adulti, che richiedono un percorso terapeutico diverso.
Ma dove è possibile ottenere delle buone diagnosi?
In questo articolo trovate molte informazioni sui Centri per l'autismo
I principali siti da monitorare sono:
- L’Osservatorio nazionale autismo dell’Istituto Superiore di Sanità
- ANGSA nazionale - Associazione Nazionale Genitori persone con Autismo
- FIA – Fondazione Italiana autismo
Come indicano le linee guida, l’approccio terapeutico più adeguato per gli autistici è quello cognitivo-comportamentale e iniziano ad essere sempre di più gli operatori con formazione specifica in questa direzione.
Sul sito di ABAIT (https://www.abaitalia.org) è possibile trovare un elenco di operatori specificatamente formati e certificati.
I centri specializzati con équipe formate e competenti ci sono, ma sono spesso privati. Ad esempio, per gli adulti, nel nord Italia vi è la Fondazione Sospiro (https://centroautismo.fondazionesospiro.it/) che ha ha un gruppo molto valido di analisti del comportamento e ad offrire moltissimi servizi, sia per gli adulti, sia per i bambini.
C’è anche il telefono blu finanziato dalla FIA e gestito dall’ANGSA a cui si possono chiedere informazioni e che può indirizzare la famiglia in base al luogo di residenza: 800031819
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