Sono e sono state le mamme a dar vita a quella scintilla che ha acceso un falò di attenzione sulle malattie rare. Sono loro che lottano, non solo per i diritti del proprio figlio ma per tutti. Sono loro che bussano alle porte e chiedono una cosa molto semplice: il riconoscimento sociale e dei diritti di una minoranza di pazienti ma non per questo meno importante. È anche grazie a loro che sono nati i centri regionali per le malattie rare. C’è ancora tanto da fare per migliorare, ma il resto d’Europa può solo invidiarci.
Quando si parla di malattie rare, si indica un gruppo di patologie piuttosto eterogeneo. Sono definite “rare” per la loro bassa diffusione nella popolazione. Devono avere, cioè, una prevalenza inferiore a 5 casi ogni 10.000 persone per essere definite “rare”.
Sembrano pochi, ma in realtà si tratta di milioni di persone in tutto il mondo.
In Italia sono più di 2 milioni e 1 su 5 ha meno di 18 anni.
In circa l’80% dei casi, la causa è genetica, per il restante 20% si tratta spesso di malattie dovute dall’interazione tra cause genetiche e ambientali.
Nonostante i numeri e le diversità, le malattie rare sono accomunate da diversi aspetti: la difficoltà a ottenere una diagnosi appropriata e rapida, la scarsa disponibilità di cure risolutive, l’andamento della malattia spesso cronico-invalidante, le difficoltà quotidiane e sociali anche dei familiari e dei caregiver.
In Italia, l’accordo Stato-Regioni del 10 maggio 2007 ha previsto l’istituzione in ogni Regione di un Coordinamento malattie rare, con il compito appunto di coordinare la rete di assistenza, gestire il registro delle malattie rare, fornire informazioni alle persone e ai professionisti e rapportarsi con le associazioni di utenza.
Nascono così i Centri per le malattie rare regionali, con l’obiettivo di fornire ai pazienti e alle loro famiglie informazioni utili come i centri di diagnosi e cura per singola malattia rara, i percorsi per ottenere l’esenzione, le associazioni attive sul territorio regionale e molto altro.
Tuttavia l’offerta dei servizi, le iniziative e la gestione dei centri non è la stessa in tutti i territori.
In vista del 28 febbraio, Giornata Mondiale per le Malattie Rare, abbiamo chiesto il motivo di questa diversità o mancanza di coordinamento tra le Regioni ad Annalisa Scopinaro, presidente della federazione Uniamo, Ilaria Ciancaleoni Bartoli, direttore di Omar (Osservatorio malattie rare), Paola Facchin, Professore associato di Pediatria presso l’Università degli studi di Padova, responsabile Coordinamento Malattie Rare del Veneto e coordinatrice del Tavolo tecnico interregionale sulle malattie rare e Giuseppe Limongelli, docente di cardiologia presso l’Università degli Studi della Campania “Luigi Vanvitelli” e Direttore Responsabile del Centro di coordinamento malattie rare della Regione Campania. Ci spiegano anche quali sono le reali necessità dei pazienti con malattie rare e dei loro caregiver, per migliorare la qualità della loro vita, dalla diagnosi ai percorsi di cura, fino al riconoscimento sociale.
Non tutti i centri regionali sono gestiti allo stesso modo, sono attivati servizi e iniziative diverse, ci sono priorità differenti, alcuni si occupano di screening altri no. Proprio per questo, alcuni pazienti sono costretti a spostarsi soprattutto dal sud verso il nord.
Quali sono le difficoltà concrete che impediscono un’organizzazione comune e omogenea nella gestione territoriale dei pazienti con malattie rare?

Risponde Annalisa Scopinaro: “Facciamo un po’ un quadro generale. Abbiamo parlato di screening. Lo screening neonatale è assicurato a tutti i bambini nati. I laboratori di screening in alcune Regioni però non ci sono: ad esempio in Abruzzo, che ha però un accordo di collaborazione con il Bambin Gesù di Roma, o in Umbria che invece è collegata al Mayer di Firenze.
Ma tutti i bambini sono screenati. Semplicemente non è economico avere un laboratorio di screening in ogni Regione, soprattutto laddove non c’è un’utenza tale da consentire un’effettiva ottimizzazione dei costi.
È quindi più conveniente fare un accordo piuttosto che mettere su un laboratorio ex novo, che dovrebbe avere tutta una serie di caratteristiche. Questo non inficia la qualità del servizio erogato, perché i bambini ottengono comunque una diagnosi come tutti gli altri. È vero però che, a volte, sono proprio le persone che non si fidano del centro della loro Regione.
Parlando con la dottoressa Annicchiarico della Regione Puglia, ho saputo, ad esempio, che è diminuita la percentuale di mobilità extraregionale, cioè di persone che si spostano fuori il loro territorio per curarsi, rispetto agli anni precedenti, passando dal 30% al 17%.
Perché divulgando con più efficacia i servizi e le specializzazioni all’interno della Regione, i pazienti si fidano di più e quindi restano nel loro territorio. A volte è proprio una questione di mancanza di informazione.
Sicuramente per alcune patologie non c’è un centro in ogni Regione ma sarebbe anche un po’ anacronistico averlo. Pensiamo a patologie che hanno 50 pazienti in tutta Italia. È impensabile aprire centri di estrema specializzazione in 21 sistemi sanitari diversi. L’elenco delle patologie del DM 279 del 2001, parliamo quindi di 22 anni fa, è stato poi sottoposto dalle Regioni a continui aggiornamenti rispetto alle casistiche che trattano; pertanto, nel corso del tempo, molti centri che si erano accreditati, ma che poi non avevano pazienti, hanno fatto scelte diverse.
Ovviamente c’è tanto ancora da fare, perché alcune Regioni l’hanno fatto, altre no. Rimane aperto il problema della verifica non tanto dei requisiti tecnici ma di quelli qualitativi, al quale la legge 175 del 2021 cerca di rimediare affermando che il Centro nazionale malattie rare resterà responsabile della valutazione della qualità dei centri di competenza.
D’altro canto le Regioni hanno concordato un documento di revisione dei centri che cercherà di uniformare i criteri di qualità e di accreditamento, anche per dare sempre più trasparenza a questo processo decisionale.
I primi al mondo ad avere centri territoriali per le malattie rare
“L’Italia e le Regioni italiane si sono trovate per prime al mondo a dover strutturare una rete formale di Centri di riferimento nel 2001- spiega Paola Facchin– nessuno sapeva cosa effettivamente fossero questi Centri di riferimento né c’erano esperienze internazionali a cui riferirsi. È per questo che questi Centri sono nati in modo molto disomogeneo, rivolti a grossi gruppi di malattie o a un’unica malattia e composti da pochi professionisti o da un intero ospedale.
Man mano che l’esperienza si è sviluppata, i vari Coordinamenti regionali per le malattie rare, tutti rappresentati nel Tavolo tecnico interregionale malattie rare, hanno sviluppato un confronto molto intenso delle esperienze e, con stretta interazione con le associazioni d’utenza nel progetto Community, si è progressivamente identificato un modello unico descritto già dal primo Piano Nazionale Malattie Rare (PNMR) e successivamente ancor meglio definito nel secondo.
C’è un accordo comune che i Centri di riferimento siano unità funzionali di più Unità Operative, rivolti a grossi gruppi di malattie e dedicati al percorso diagnostico e alla definizione annuale del piano di presa in carico del paziente o della persona con malattia rara. Essi sono i registri di questa presa in carico che può essere in parte decentrata negli ospedali e nei servizi territoriali dove il paziente vive sotto la supervisione del Centro. Ormai in tutte le Regioni, le progressive revisioni della rete per le malattie rare stanno andando verso questa formulazione.
Una selezione di questi Centri, quelli con maggior casistica, capacità di innovazione e complessità, sono entrati a far parte delle reti European Reference Networks (ERN) assumendo anche il titolo di Centri di eccellenza. Anche in Europa i Centri parte delle ERN hanno una costruzione e attività come quella italiana sopra descritta, tanto che la maggior parte dei Centri di riferimento italiani sono anche Centri di eccellenza parte delle ERN a dimostrazione della buona qualità generale di questi Centri. Essi hanno una funzione clinica e sono solo una delle componenti delle reti regionali per l’assistenza al malato raro.
Altre componenti sono i Coordinamenti regionali, gestori delle reti, i Centri di screening, che comprendono laboratori e organizzazione specifica con interazione con i Punti Nascita, servizi e laboratori di genetica medica, servizi ospedalieri e territoriali oltre che reti specialistiche regionali (es. cure palliative, riabilitazione, urgenza, trapianti, etc.).
È comunque evidente che esistono situazioni o Regioni con larga popolazione, grandi ospedali di ricerca con complesse facilities per diagnostica e trattamenti avanzati e altre con bacini di utenza più limitati e diverse organizzazioni di base. È necessario però garantire un equilibrio tra concentrazione dei malati e ragionevole copertura dei territori” conclude Paola Facchin.
Quindi è un po’ nella natura della gestione di queste malattie una certa differenziazione, non è solo una questione di diversa organizzazione regionale o di budget?
“Sì, perché le patologie sono diverse – conferma la presidente di UNIAMO– pensiamo alla talassemia che ha oltre 30.000 pazienti. In questo caso ci deve essere una certa concentrazione nel territorio, perché i pazienti fanno infusioni ogni tre settimane e devono farlo vicino alla loro residenza, troppo lontano sarebbe un problema.
Quindi, ci deve essere un’eccellenza sul territorio. Ma per patologie più rare, come la Cri-du-chat, con 70 bambini in tutta Italia, ad esempio, il centro sotto casa è una fortuna. È impensabile che un centro, ad esempio, in Calabria abbia la competenza per una malattia per cui c’è solo un bambino nel territorio.
Ci potrà essere una competenza su analisi del sangue, controllo cardiologico, endocrinologico, ecc., ma la visione complessiva la può avere solo un centro che ne ha visti almeno 20 di bambini con quella patologia. A volte è un po’ un’idea che ci sia una grande differenza regionale rispetto alle patologie rare.
Specialmente nella fase di diagnosi, spesso le persone si spostano non solo per avere una diagnosi, ma per sentirsela confermare, perché è sempre difficile accettare la presenza di una malattia rara”.
Cosa si può fare per aiutare i centri e di conseguenza i pazienti?
Risponde la coordinatrice del Veneto, Paola Facchin: “La vita dei Centri è gravata da vari ordini di problemi per i quali sono possibili soluzioni in parte già elencate nel nuovo PNMR. Il primo ordine di problemi è di tipo strutturale legato alle risorse, sia economico-finanziarie che di personale. I Centri non possono sopravvivere in equilibrio di bilancio con le tariffe ordinarie definite per pazienti a medio e basso carico assistenziale.
La legge già prevede che in questi casi (urgenza-emergenza, trapianti, malattie rare) ci sia un finanziamento a funzione a supporto delle attività non remunerate dalle tariffe standard. Tale finanziamento è stato attivato da molti anni per urgenza e trapianti ma non per le malattie rare. Allo stesso modo, gli standard medi di personale devono essere rivisti per Centri che si dedicano solo a pazienti ad alta complessità.
Un altro ordine di problemi è organizzativo: l’organizzazione ospedaliera va per silos e canne d’organo (Dipartimenti assistenziali e UOC). Questo è di gravissimo ostacolo per il funzionamento dei Centri, unità funzionali costitute da più UOC (Unità Operative complesse) appartenenti a dipartimenti strutturali diversi.
Bisogna sperimentare e implementare un’organizzazione e un budget corrispondente per percorso assistenziale e non per prestazione e UOC. Questa modifica organizzativa e budgetaria dovrebbe essere ripresa anche per il riconoscimento economico dei percorsi assistenziali dei malati nel passaggio tra Centri, ospedali periferici, servizi territoriali e domiciliari, cioè i percorsi assistenziali oggi frammentati e non retribuiti proprio per questa ragione.
Altro elemento critico è la differenza di casistica ed esperienza tra Centri. Anche in questo caso bisogna attivare ciò che è già previsto per norma, cioè la consulenza a distanza tra Centri attraverso reti di tele-medicina. Esiste un Accordo Stato-Regioni specifico non attivato per mancanza di tariffe che devono ancora essere definite dal Ministero”.
Che cosa si potrebbe fare a livello istituzionale per creare un’uniformità di approccio che sia un riferimento per tutti i pazienti e i famigliari o caregiver?

“Quando si parla di uniformità – risponde il direttore di OMAR – bisogna tener conto della particolarità delle malattie rare. Pertanto, ciò che dobbiamo dare alle persone non è la possibilità di avere un centro di eccellenza in tutte le Regioni. Perché se i malati sono 100, è impossibile che ci siano 20 centri di eccellenza.
Dobbiamo, invece, dare il massimo anche fosse in una sola Regione a livello di eccellenza. Ciò che deve essere uniforme è la possibilità di arrivarci, di essere indirizzati e di proseguire poi le terapie, il monitoraggio, la riabilitazione, il farmaco e il device a casa propria, o quanto più vicino possibile.
Non è il singolo viaggio per la prima o la seconda visita che pesa alle famiglie, perché sono disposte ad andare ovunque, ma poi hanno il diritto di tornare nel proprio territorio e lì avere tutto il percorso di presa in carico.
È quello che dobbiamo uniformare, ed è quello che non è stato possibile fare, perché purtroppo la prima legge sulle malattie rare è stata fatta prima del Titolo V, che ha regionalizzato tutto, mentre nelle malattie rare c’è proprio bisogno di riferirsi a uno schema unico.
Temo anche che se passerà l’autonomia differenziata, queste differenze possono crescere.
Perciò è necessario dare al paziente ciò di cui ha bisogno, che non è un centro di eccellenza vicino casa, perché sarebbe una contraddizione.
È la presa in carico sul proprio territorio, la rete che dal territorio arriva al centro di eccellenza.
Perché poi al centro di eccellenza ci si va una volta l’anno o due, non è una cosa costante.
È la fisioterapia, la terapia, il farmaco che invece si fa tutti i giorni. È la presa in carico psicologica che ci deve essere, della famiglia e del paziente. Sono tutte cose che vanno organizzate, uscendo dal personalismo delle Regioni che vogliono tutto a casa propria, ma non si può, perché è una contraddizione.
Può esserci per una malattia comune come il diabete, è giusto, non può esserci per le malattie rare”.
“Quello che si può fare – aggiunge Scopinaro – è cercare di finanziare meglio tutti i percorsi per le malattie rare, perché i pazienti hanno bisogno di una presa in carico multidisciplinare, cioè devono essere coinvolti più specialisti che devono però avere anche il tempo di confrontarsi sul caso. Ad oggi le malattie rare rientrano nella sanità generale che va a prestazione.
Vuol dire che, ad esempio, se vado dall’endocrinologo l’ospedale è pagato per quella visita. Nessuno paga “l’extra tempo” che serve all’endocrinologo, al cardiologo e ad altri professionisti per lavorare in team. Se vogliamo che la presa in carico dei pazienti con malattie rare sia davvero multidisciplinare e non si basi solo sulla buona volontà delle persone, dobbiamo pensare che queste patologie hanno bisogno di finanziamenti più specifici. Se prendo in carico le malattie rare, occorre un extra budget, perché sono patologie complesse che hanno bisogno di una presa in carico complessa”.
Il PNRR che ha dedicato specificatamente 50 milioni di euro alle malattie rare, potrebbe aiutare?
Risponde la presidente UNIAMO: “il PNRR ha delineato un quadro organizzativo in cui dobbiamo capire come far confluire le specificità delle malattie rare. Ha stanziato 50 milioni di euro per la ricerca sulle malattie rare e 50 sui tumori rari. Però alcuni dei cambiamenti organizzativi che sono nel PNRR e nel DM 77/2022 sui nuovi modelli di assistenza domiciliare, impattano anche sulla vita del malato raro, ma ancora non sappiamo bene come. Quindi, al momento non può essere di aiuto, a parte i soldi stanziati. Sul concreto, dobbiamo ancora capire quali saranno gli effetti, di sicuro non nell’immediato”.

Aggiunge Giuseppe Limongelli: “Quando parliamo di ricerca sulle malattie rare, parliamo anche di terapie soprattutto per le malattie che non hanno ancora un nome. Si chiamano malattie invisibili o senza diagnosi. Sicuramente questo è un campo di azione importantissimo in cui impegnare i fondi sulla ricerca: dare un nome e portare avanti nuovi sviluppi terapeutici per le patologie rare.
Esistono poi anche altri campi di azione, che partono dal sospetto di patologia rara, per arrivare a una diagnosi precoce, utilizzando i big data e l’intelligenza artificiale, cioè tutte le informazioni a disposizione sui segni e sintomi, i cosiddetti campanelli di allarme. Quindi, questi 50 milioni di euro saranno ben spesi e utilizzati per una serie di ricerche: da nuovi strumenti tecnologici per la diagnosi precoce, ai biomarcatori di malattie rare, quindi ricerca genetica. È una strada sicuramente lunga, 50 milioni di euro non sono tanti ma nemmeno pochi. Soprattutto sono un segnale importante, vuol dire che si è capito che, di fatto, le malattie rare sono una priorità su cui investire. Nella Regione Campania sono stati stanziati 15 milioni di euro di fondi europei per la ricerca sulle patologie rare. Sono piccoli segnali che il Ministero e le Regioni stanno dando per investire e trovare delle risposte nel campo delle malattie rare.
I centri di coordinamento in questo possono sicuramente rappresentare un core importantissimo, perché all’interno del Piano nazionale, che poi è declinato in Piani regionali, i centri di coordinamento facilitano i rapporti e monitorano le difficoltà e le richieste che arrivano dai presidi del territorio e fanno capire quali sono le esigenze su cui investire. È necessario investire per fortificare una rete, per migliorare i flussi informativi, investire in ricerca, in formazione e informazione. In informazione perché il cittadino deve sapere dove andarsi a curare e se esistono centri regionali dove farlo.
In formazione perché se vogliamo delle reti che funzionano, è necessario che il personale sanitario e non sanitario sia formato e che possa conoscere le regole su cui si fonda la rete delle malattie rare, come far arrivare al posto giusto il paziente giusto e come seguire il suo percorso, i famosi PDTA (Percorsi diagnostici terapeutici assistenziali).

Diritto allo studio e disabilità: la storia di Roberta
Roberta ha 6 anni e una malattia rara, anzi ultrarara: la displasia campomelica con variante acampomelica. Ha bisogno di costante assistenza infermieristica e ora che ha iniziato le elementari questa non le è più garantita. Il diritto allo studio per Roberta ( e tanti bimbi e bimbe con disabilità e malattie rare) rimane solo sulla carta.
Di che cosa hanno bisogno esattamente i pazienti e caregiver di malattie rare?
“Hanno bisogno innanzitutto che si risolva il ritardo di diagnosi che al momento è, in media, di almeno 4 anni – risponde Annalisa Scopinaro -ancora oggi la diagnosi per alcune persone è un’odissea, pertanto bisogna ottimizzare tutto quello che c’è, gli screening, le tecniche omiche e un’informazione più efficace.
Tutto quello che si può mettere in campo.
La parte sanitaria è più o meno sviluppata e strutturata, anche se con differenze territoriali. Tanto è vero che in Italia attiriamo persone dall’estero, mentre dall’Italia ne escono pochissime.
In 5 anni più di 8000 persone sono entrate in Italia, mentre dal nostro Paese ne sono uscite solo 180. In Italia, tutto sommato, il sistema regge.
Non dobbiamo però dimenticare che solo il 5% delle malattie rare ha una terapia, per tutte le altre, per migliorare la qualità di vita, ci sono i trattamenti socio sanitari, la riabilitazione e un supporto alla vita ordinaria, nel lavoro, nella scuola, ecc. Per queste cose siamo ancora molto indietro: mancano i riconoscimenti di malattia rara a livello di invalidità, manca un supporto al caregiver che si deve dedicare al malato e spesso deve lasciare il lavoro.
Manca una tutela sul lavoro che offra facilitazioni sul part time, sullo smartworking e sull’inserimento lavorativo, soprattutto di quelle persone che hanno una disabilità cognitiva, lo stesso problema delle persone con disabilità. Nelle malattie rare ancora di più, perché associata alla disabilità cognitiva c’è anche una patologia fisica.
Da fare ce n’è, c’è da portare a casa l’assistenza: ci sono mamme che non possono uscire di casa perché i loro figli non possono essere lasciati da soli, sono situazioni di grande difficoltà. Anche perché le interazioni tra il Ministero della salute e il Ministero delle politiche sociali sono molto poche.
Serve uno sforzo in più.
Il fondo di solidarietà destinato dalla legge 175/2021 alle persone con malattie rare ad oggi è di un milione di euro. È chiaramente pochissimo, se pensiamo a circa 2 milioni di persone con patologia rara in Italia, in cui quelle gravi sono almeno 200.000/300.000: in pratica 3 euro a testa. Ma anche se fossero 20.000 i pazienti, sarebbero comunque 500 euro a testa in un anno.
Cosa risolvono? Un’elemosina. Certo tutti dicono “è un inizio”, il fondo si può incrementare, ma in quanti anni? La cosa positiva è che si inizia a riconoscere il bisogno sociale delle persone con malattia rara. Non sarà il fondo a risolvere i problemi ma almeno riconosce che c’è un problema sociale e magari favorisce la nascita di altre leggi a sostegno”.
Il nuovo Piano Nazionale per le malattie rare come potrà venire incontro alle esigenze reali dei pazienti e ridurre le diversità tra i centri regionali?
“Ciò che è stato licenziato, che ha avuto il via libera dal Comitato nazionale malattie rare – risponde Ilaria Ciancaleoni Bartoli di Omar – non è solamente il Piano nazionale malattie rare, che sicuramente è importantissimo perché era atteso dal 2016, ma è anche lo schema di riordino delle Reti, quindi dei centri di riferimento, con degli indicatori ben precisi, con dei criteri per monitorarne la qualità.
Questa seconda parte, di cui si è parlato di meno, forse perché un po’ più tecnica, è quella che in realtà andrà a cambiare, nel giro di due o tre anni, la vita delle persone. Perché sarà più probabile che il centro che su carta è esperto, lo sia veramente. Ormai la lista dei centri è stata fatta da tantissimi anni ma le cose cambiano, cambiano i medici, cambiano le expertise. Quindi, poteva capitare un centro esperto sulla carta ma che poi non offriva tutti i servizi necessari. Ora riordinandoli, si andrà poi a monitorarli e questa sarà la cosa di impatto più immediato.
Poi, per quanto riguarda il Piano nazionale, ha tutta una serie di to do, cose da fare, di indicatori da rispettare. Tuttavia, per metterlo in pratica, al di là di tenerlo come linea guida per tutte le azioni da compiere, serviranno dei fondi e su questo siamo stati chiari con il Ministero. Bellissima la volontà di portarlo a termine, ma poi il passo immediatamente successivo è dare una dotazione finanziaria, non servono decine di milioni di euro. Però diamogliela. Perché poi bisogna mettere in atto delle azioni, anche solo per il personale che ci deve lavorare”.
Com’è invece la situazione in Europa, anche per lo screening?
“Noi siamo a livello mondiale per lo screening neonatale secondi solo agli Stati Uniti – risponde il direttore di Omar – gli USA trattano un certo numero di patologie, una cinquantina credo, noi almeno 49, quindi da questo punto di vista siamo messi bene. Anzi, si spera che a breve ci sia anche un decreto di aggiornamento che aumenterà il numero di patologie, arrivando almeno a una cinquantina. Il merito è di una legge eccellente fatta nel 2017 sulla quale non abbiamo nulla di ridire, è un’eccellenza in Europa e seconda al mondo.
Quello in cui ci siamo persi è stato l’aggiornamento costante della lista delle patologie.
Cosa ha portato? Anche in questo caso a una difformità regionale, perché la scienza è andata avanti. In tanti si sono resi conto che era possibile, con poca spesa, e salvava la vita ai bambini, cercare altre malattie. Le Regioni, che potevano finanziariamente, hanno implementato questi esami da soli, in attesa dell’aggiornamento nazionale. Quelle che non potevano o che non volevano non lo hanno fatto. Quindi, abbiamo Regioni come la Puglia e la Toscana che hanno aggiunto 7-8 patologie, la Lombardia, che ci ha pensato solo ultimamente, ne ha aggiunta solo una, l’Emilia Romagna non ne ha aggiunta nessuna, il Veneto ne ha aggiunte molte, ma non tutte.
Una difformità totale, per cui avere una diagnosi di quelle patologie “facoltative” oggi è la fortuna di avere la malattia giusta nella Regione giusta. Perché potresti anche avere la Regione giusta, ma la patologia non è seguita lì, bensì in un’altra Regione.
Una lotteria. Che cozza con il diritto alla salute. Il diritto non è fortuna, quindi serve questo aggiornamento per appianare tali diversità. Hanno fatto benissimo le Regioni che sono andate avanti, non è colpa loro e non è colpa nemmeno di quelle che non hanno potuto, perché magari erano in piano di rientro.
Qui serve lo Stato, che elimini le differenze e dia a tutti lo stesso diritto. Però, in Europa, siamo stati bravi. Anche per quanto riguarda l’accesso ai farmaci. In Europa ne sono stati approvati 130. In Italia, già oggi, sono 122 quelli a disposizione. Vuol dire che ci sono 8 farmaci che ancora non hanno finito l’iter in AIFA, ma 8 su 130. Siamo secondi solo alla Germania, la quale però ha un meccanismo completamente diverso che è difficilmente paragonabile.
Lì c’è tutta la questione dell’assicurazione sanitaria, mentre in Italia questi 122 li diamo a tutti, quindi anche qui siamo al top. Ma anche qui abbiamo tempi diversi nei diversi territori. Sempre lì torniamo. Lavoriamo bene in media, ma poi, se sei calabrese, non è la stessa cosa che esser toscano e questo non è giusto”.
“L’Italia è al primo posto, con 49 patologie screenate, la Francia ne ha 9, la Germania mi sembra 7 – conferma il presidente di UNIAMO – questo vuol dire che i bambini nel resto dell’Europa muoiono oppure hanno una pessima qualità di vita, perché le loro patologie non sono individuate. L’Italia ha un primato in questo e buona parte del merito è delle associazioni.
Se non ci fossero state Renza Barbon Galluppi, già presidente di Uniamo, e Manuela Vaccarotto di AISMME, che avevano figli con malattia rara, se non avessero girato l’Italia per sostenere l’introduzione dello screening, forse saremmo al livello della Germania. Poi si sono aggiunti altri attori, c’è stato un lavoro di squadra ma il contributo di queste due donne, che insieme hanno rotto le scatole ovunque per sensibilizzare il mondo sulle malattie rare, è stato fondamentale. L’attività delle associazioni è fondamentale per far sì che il sistema cambi. Facciamo da pungolo, riusciamo ad attirare politici, esponenti delle istituzioni e tecnici. Cerchiamo di aggregare competenze, per far cambiare alcune cose. Perché siamo tutti coinvolti direttamente con le malattie rare, sappiamo di cosa stiamo parlando”.
Il bisogno vero è partito dalle mamme, donne che hanno lottato non solo per i diritti del proprio figlio, ma per tutti. Volevano ad ogni costo che altri non passassero quello che loro avevano passato. Queste sono le grandi vittorie dell’associazionismo e la scintilla iniziale è partita dalle mamme. Poi è chiaro che ognuno deve fare la sua parte: il politico, le istituzioni, le regioni. Ma le mamme cambiano i sistemi, perché mosse dalla solidarietà, che è una forza prorompente in cui non si lotta per se ma anche per gli altri.
Le differenze territoriali ci sono e a volte sono legate a organizzazioni diverse ma non per questo c’è una discriminazione. Ci sono medici di eccellenza in tutta Italia e spesso è la mancanza di informazione che spinge le persone a spostarsi, pensando che sul proprio territorio non ci sia nulla. La questione è certamente complessa, non può esserci un centro per ogni malattia rara e non tutti i centri possono seguire tutte le patologie. Poi manca certamente un’uniformità nella gestione regionale dei centri. Ciò che può e che deve esserci per il paziente è la possibilità di arrivarci, di essere indirizzati e di proseguire il percorso terapeutico, il monitoraggio, la riabilitazione e tutto ciò che occorre a casa propria o nelle immediate vicinanze.