Italia ci sono circa 30 mila bambini e ragazzi affetti da una malattia inguaribile. Per loro la morte precoce è inevitabile, ma non si sa quando avverrà: possono passare giorni, o mesi. O anni. In tutto questo tempo, il bambino o la bambina ha diritto a essere curato, anche se non può essere guarito. A questo servono le cure palliative.

Benché la legge 38 del 2010 abbia sancito il diritto all’accesso alle cure palliative pediatriche (CPP) e alla terapia del dolore, si stima che nel nostro paese una quota non superiore al 15% dei bambini eleggibili abbia accesso alle cure palliative pediatriche. La rete territoriali delle cure palliative è inesistente in molte realtà regionali e in particolare nel mezzogiorno e pochissimi sono gli hospice pediatrici attivati in Italia.
Ne abbiamo parlato con Franca Benini, Responsabile del Centro regionale Veneto di Terapia del Dolore (TD) e Cure Palliative Pediatriche (CPP) – Hospice Pediatrico di Padova. Specializzata in Pediatria, Anestesia e Rianimazione, Neonatologia e Farmacologia, ha lavorato inizialmente in Terapia Intensiva Neonatale e successivamente in Terapia Intensiva Pediatrica, focalizzando il suo il suo interesse clinico e di ricerca sul dolore e sulle CPP. Nel 2007 ha aperto a Padova il primo Hospice Pediatrico Italiano. E’ autrice di più di 300 lavori scientifici pubblicati su riviste nazionali ed internazionali.
Cosa sono le cure palliative
Le cure palliative pediatriche (CPP) sono definite come “L’attiva presa in carico globale del corpo, della mente e dello spirito del bambino che comprende il supporto attivo alla famiglia”, come un’unica unità di cura. Ci si cura dell’anima, non solo del corpo. È un mondo diverso rispetto alle cure palliative per gli adulti.
Incide su una popolazione estremamente eterogenea per tipo di patologia, prevalenza, età di insorgenza della patologia, durata della prognosi, tempistiche e intensità degli interventi, bisogni fisici, spirituali, comunicativi, sociali.
Nel mondo si stima vi siano oltre 20 milioni di bambini con bisogni di cure palliative, e di questi 8 milioni necessitano di cure palliative specialistiche. In Italia vi sono 30.000 bambini che necessitano di queste cure, di cui 11.000 in modo specialistico: per specialistico non si intende un solo medico ma un team composto da pediatra, psicologo e altre figure specializzate.
Lo sviluppo delle CPP nel mondo è tuttora frammentato, con molte carenze da colmare soprattutto nell’accesso alle cure, nella qualità della formazione degli operatori sanitari e nelle disparità di accesso ai servizi.
Le cure palliative in Italia
Noi siamo il paese con le leggi più belle del mondo e anche quella sulle cure palliative fa la sua figura. Si tratta della legge n. 38 del 2010 che le definisce come “L’insieme degli interventi terapeutici, diagnostici e assistenziali, rivolti sia alla persona malata sia al suo nucleo familiare, finalizzati alla cura attiva e totale dei pazienti la cui malattia di base, caratterizzata da un’inarrestabile evoluzione e da una prognosi infausta, non risponde più a trattamenti specifici”.
Questa normativa ha costituito il punto di arrivo di un lungo percorso iniziato nel 1999 con la legge 39 che avviava nel nostro Paese un programma nazionale per le cure palliative domiciliari e di realizzazione degli hospice, e ha rappresentato al contempo un punto di partenza di un lungo e articolato percorso attuativo. Tra i passaggi più recenti, si richiamano gli Accordi stipulati in sede di Conferenza Stato-Regioni il 27 luglio 2020 sull’accreditamento della rete di cure palliative e della rete di terapia del dolore nonché il 25 marzo 2021 sull’accreditamento della rete di terapia del dolore e cure palliative pediatrica.
A dodici anni dall’approvazione di questa legge, l’accesso alle cure per i bambini è ancora problematico.
Gli sviluppi delle CPP in Europa sono stati recentemente inclusi nell’ EAPC Atlas of Palliative Care in Europe (2019) mediante due indagini collegate inviate ad esperti dei 54 paesi dell’aera europea,
Per l’Italia sono riportati 5 Hospice e 7 Unità di Cure Palliative Domiciliari, mentre non ci sono dati su Servizi Intraospedalieri. Attualmente il dato aggiornato sugli Hospice è di 6 strutture (Padova, Genova, Torino, Milano, Napoli, Roma e in Basilicata) e altre 3 che sono in via di realizzazione.
L’istituzione di una Rete di CPP è prevista per legge dal 2010, tuttavia, su un fabbisogno stimato nazionale di 30.000-35.000 minori solo il 5-15% usufruisce di tale diritto riconosciuto.
Su 20 Regioni, 17 hanno deliberato in merito all’attivazione di una rete territoriale ma solo in 6 di questi atti deliberativi sono descritti i criteri e i percorsi per l’attivazione dei centri di riferimento.
“Abbiamo un’ottima normativa, con la possibilità di dare delle risposte veramente strutturate, positive. Cosa c’è che non quadra?- si chiede Benini – sicuramente è un problema culturale: è difficile mettere insieme la parola bambino con sofferenza, dolore e morte. La società scientifica non lo vuol sentire, anche perché oggi la medicina riesce a risolvere problemi che prima sembravano irrisolvibili”.
Si crede che la medicina possa fare miracoli e che un bambino debba per forza essere salvato. Non è così, purtroppo.
“Accanto alla questione culturale – continua Benini – c’è un grosso problema di risposta alla normativa che abbiamo a disposizione: non tutte le Regioni l’hanno attuata in maniera adeguata, anche se negli ultimi cinque anni le cose stanno migliorando a livello di organizzazione e formazione. Ricordiamoci che i bambini che necessitano cure palliative sono i più difficili dell’ambito pediatrico, perché vanno gestiti a casa, un setting molto più complesso rispetto a quello ospedaliero: in ospedale lavori in un ambiente in cui tutti parlano la tua lingua invece a casa di quel paziente devi “bussare” per entrare, è una sfida enorme, ma è la sfida sulla quale noi dobbiamo misurarci”.
Per i bambini le cure palliative sono differenti rispetto agli adulti
Le cure palliative rivolte al paziente pediatrico sono completamente diverse rispetto a quelle dell’adulto. Ci sono diverse patologie coinvolte e per l’80% dei casi è una patologia non oncologica, ma comprende spesso malattie rare o specifiche dell’infanzia. Diverso è anche il momento in cui i bambini vengono presi in carico, che non è nelle ultime fasi della vita), ma quando arriva la diagnosi di malattia inguaribile. Devono quindi sussistere diverse caratteristiche:
- i bambini hanno una malattia inguaribile
- hanno bisogni complessi, vale a dire la malattia è così invalidante da creare numerosi bisogni a livello clinico e in molti casi si dipende dalle macchine
- In alcuni casi, hanno problemi di comunicazione sensoriale
- In qualsiasi momento ci può essere l’aggravamento della situazione clinica fino ad arrivare al decesso.
Il percorso per arrivare alla diagnosi spesso è lungo e complesso.
Inoltre:
- la scala temporale in cui ci si muove è estremamente variabile poiché i bisogni di cure palliative possono esaurirsi in pochi giorni, così come estendersi per mesi o anche per molti anni;
- il centro della cura si estende all’intera famiglia, in modo più pervasivo rispetto al mondo delle Cure Palliative generali.
- vi è una enorme variabilità di bisogni a seconda dell’età del minore, con differenti capacità di comunicazione e comprensione, di partecipazione alle scelte di cura, di educazione e socializzazione, che cambiano nel tempo per il singolo paziente: perché la malattia non blocca la crescita fisica, cognitiva ed emotiva del bambino. Garantire le possibilità di educazione, gioco, socializzazione per il bambino malato è essenziale.
Non c’è più niente da fare? In realtà c’è molto da fare
Oggi, quando si parla di cure palliative, viene subito alla mente il fatto che la persona sta morendo e che abbia poco tempo da vivere. E che quindi, rimanga ben poco da fare.
Non è così: le cure palliative si offrono sicuramente per accompagnare una persona che si trova allo stadio terminale della malattia, ma non intervengono solo in questo caso; infatti, servono anche per sostenerla in questo percorso, che può durare giorni, mesi o anni. E in tutto questo tempo hanno diritto di vivere al meglio la loro esistenza.
Questo ostacolo culturale rallenta e continua a rallentare la diffusione delle cure sia in ambito sociale sia in ambito sanitario, perché non c’è formazione e non c’è cultura.
“Per capire il fenomeno usiamo i numeri – riprende Benini – per ogni bambino che si trova in una fase terminale ce ne sono venti in una fase inguaribile, quindi, il rapporto è assolutamente rovesciato.
“Si lavora per la vita in un percorso dove non c’è possibilità di guarigione.
Si lavora assolutamente per la vita finché questa c’è.”
Quindi fino al momento della morte e del decesso. Ma il grosso del lavoro di chi si occupa di cure palliative è proprio mirato al controllo dei sintomi, al supporto psicologico, all’ingresso nella vita sociale, alla condivisione dei problemi spirituali e bioetici di questi bambini e di queste famiglie. Il team che si prende carico di questi bambini affronta tutti gli aspetti della malattia, anche quelli sociali. E infatti in questi gruppi multidisciplinari non ci sono soltanto il clinico e il pediatra ma anche lo psicologo, logicamente se si vanno a toccare anche altri problemi devono esserci persone competenti, come il fisiatra ad esempio”.
“Nella regione Veneto – continua Benini – è stato definito uno strumento per legge, che ha le caratteristiche di un network regionale su macro area.. La legge dell’accreditamento delle reti parte dalla legge 38, che è una legge quadro, ciò significa che ci sono molti principi che vengono snocciolati con degli adempimenti successivi che definiscono le caratteristiche e la qualità delle cure che devono essere somministrate al bambino e alla famiglia: qualità e cure che sono un diritto perché le cure palliative pediatriche, come quelle dell’adulto, fanno parte dei Lea, i livelli essenziali di assistenza”.
Il Veneto si può considerare una best practice per diversi aspetti: c’è un team di persone (formato da medici, infermieri, psicologi,etc..) con un centro di riferimento focalizzato presso il Dipartimento di Pediatria dell’Università di Padova, dove arrivano tutte le richieste di attivazione di cure palliative specialistiche. E non sono i bambini che vanno nel centro, ma è il team di specialisti che raggiunge i bambini a domicilio: “Il reparto di pediatria è un reparto mobile, ci sono tre macchine a disposizione e team diversi di medici, infermieri e psicologi escono sul territorio e gestiscono i problemi. Forniamo anche un’assistenza H24 medico-infermieristica e psicologica. Oltre a questo, c’è un ospedale pediatrico che ha delle caratteristiche completamente diverse dall’ospedale dell’adulto: è una struttura dove ci sono dei ricoveri molto brevi, perché l’obiettivo è continuare a gestire a casa questi bambini. Il team che forma genitori, pazienti, etc, è lo stesso che poi lo seguirà a casa con l’aiuto di tutto il territorio. Perché è una rete”.
Nelle Cure palliative si lavora con il pediatra di famiglia, con il medico di medicina generale, con le cure palliative dell’adulto, con la fisioterapia territoriale, con la scuola, con la rete amicale, con il datore di lavoro dei genitori.
Si cerca di costruire un mantello (palliativo deriva da pallium, mantello in latino) nei confronti di quanto sta succedendo, per quella famiglia e soprattutto quel bambino, facendo attenzione a proporre delle risposte che siano adeguate alla situazione, alla cultura, alle richieste.
Cure palliative e bioetica: alcune riflessioni
La tecnologia di questi ultimi anni e la scienza hanno certamente cambiato la vita di molte famiglie e di molti bambini che prima erano inguaribili, adesso vivono normalmente e sono guariti.
Poi esistono bambini che non possono guarire. E questo è un concetto che la società, prima ancora che la famiglia del singolo piccolo paziente, non riesce ad accettare.
È un concetto che non si vuole sentire, che la mente rifugge, perché accostare l’idea del bambino (che è simbolo di vita, futuro, speranza, gioia) a quella delle cure palliative (che ancora oggi sono interpretate come cure da somministrare nelle fasi terminali) alimenta un cortocircuito che va a detrimento di tutto il processo. E può aprire dubbi di bioetica non indifferenti, soprattutto quando la vita di questi bambini dipende essenzialmente dalle macchine cui sono attaccati:
“Il rischio bioetico – rimarca Binetti – è che la tecnologia trascini la sofferenza del paziente, per cui è importantissimo che in ambito medico ogni scelta che riguarda il paziente sia condivisa con la famiglia e segua un percorso di riflessione bioetica focalizzato sul miglior interesse del bambino. Bisogna lavorare sulla qualità della vita di quel bambino, senza limiti e preconcetti che derivano da culture, religioni, ma sulla base di quello che afferma la scienza”.

Non si può lasciare la scelta solo sulle spalle dei genitori : “Perché questo significa deresponsabilizzare il ruolo medico – rimarca la specialista – se i genitori chiedono di fare una cosa che va contro il miglior interesse di quel bambino, il medico deve prendersi la responsabilità in team di decidere se farlo o meno. Mi viene in mente il caso, successo proprio qui a Padova, di quei genitori che hanno rifiutato la chemioterapia e sono stati denunciati e condannati. Come togliamo la responsabilità genitoriale quando i genitori, per amore, per cultura, non sono in grado di dire sì a una terapia? Dobbiamo farlo nella stessa maniera nel momento in cui i genitori propongono un atto medico che non serve a quel bambino, anzi è dannoso”. Come il recente caso del bambino inglese di 12 anni, Archie, per cui i medici avevano disposto di staccarlo dalle macchine, perché non c’era più nulla da fare e rimanere attaccati alla macchina causava inutili sofferenze. I genitori, in quel caso, avrebbero invece voluto continuare a tenere in vita il bambino, seppur in quelle condizioni.
“In questi casi – riprende la dottoressa Benini – si innesca anche un percorso di onestà intellettuale e responsabilità clinica: il medico non deve diventare genitore, il genitore non può diventare un medico”.
Qui ovviamente siamo su un terreno delicato: un conto è l’autodeterminazione di un adulto che sceglie per se stesso, altro conto è scegliere per il proprio figlio: “Nel momento in cui noi dobbiamo scegliere per una terza persona, come nel caso della pediatria, dobbiamo lavorare in base alla scienza fin dove è possibile. In questo percorso spesso chiediamo il parere clinico di colleghi che lavorano in altri centri, anche internazionali”.
Pochi medici vogliono fare i palliativisti
Un pediatra delle cure palliative deve seguire un percorso formativo ad hoc.
Fino al 2022 esisteva solo il master di Alta Professionalizzazione in Terapia del dolore e Cure Palliative Pediatriche definito dal Miur per legge. Mentre la scuola di specializzazione in Medicina e Cure Palliative è stata attivata solo quest’anno.
“Sono percorsi formativi molto complessi perché richiedono la competenza del saper fare, per decidere anche di non fare”.
“Ecco perché non c’è molta voglia di seguire questo genere di specializzazione – rimarca la specialista – perché è un lavoro molto faticoso, è un lavoro che mette a nudo un po’ di problemi, perché hai a che fare molto spesso con la sofferenza. Da quest’anno, nella Scuola di specializzazione di Pediatria ci sarà un percorso obbligatorio breve di terapia del dolore e cure palliative. E questa è una scintilla per i medici in formazione per ricordare loro che, all’interno della pediatria, oltre alla reumatologia, oltre alla cardiologia, oltre alla pneumologia, alla terapia intensiva, alla neonatologia, esiste anche questa branca”.
Il tema cruciale che può spiegare la scarsa appetibilità per le cure palliative è la difficoltà di guarire, e questo è qualcosa difficilmente accettabile dai medici, che scelgono questa professione proprio per questo motivo, guarire le malattie.
“Il lavoro del medico non è solo guarire, ma prima di tutto curare. La guarigione è un obiettivo certamente innegabile, ma la missione del medico, o meglio la missione del sanitario, è prendersi cura del paziente. Noi continuiamo a lavorare perché la guarigione sia l’obiettivo, ma sappiamo benissimo che può non essere così”.
Fino ad ora nei percorsi accademici, le cure palliative e questo modo di vedere la medicina non venivano nemmeno presi in considerazione, e pensare che fare un’esperienza come medico palliativista può essere molto formativa, perché si ha a che fare con una complessità difficilmente riscontrabile in altri ambiti. Si diventa bravi nell’organizzazione, nella comunicazione, nella bioetica, nell’anestesiologia. Si impara a lavorare in team. Tutti aspetti che per il momento, nel percorso formativo del pediatra, sono insegnati in modo molto blando.

Vengono in mente le parole di Cecily Saunders, prima infermiera e poi medico, fondatrice del “movimento Hospice”, un movimento più che mai attuale, un concetto di cure palliative secondo cui la persona gravemente malata non può guarire, ma si può curare.
“You matter because you are you and you matter until the last moment of your life”
Sei importante perché sei tu e sei importante fino alla fine della tua vita.
Fonti