Affettività e sessualità sono realtà che a tutt’oggi costituiscono veri e propri tabù difficili da sfatare.
Una questione che diventa ancor più spinosa se riferita alle persone con disabilità, nei confronti delle quali c’è un forte pregiudizio, quello secondo cui queste siano “esseri asessuati”: niente di più sbagliato.
L’essere un soggetto bisognoso di cura, non è infatti sinonimo di persona che non abbia emozioni, sentimenti e desideri, come purtroppo si è soliti pensare. Fare corretta informazione sul punto è essenziale per riuscire a contrastare efficacemente una cultura radicata in vecchi stereotipi che identificano il disabile come chi non ha una propria sfera intima.
Ne abbiamo parlato con il dottor Filippo Maria Nimbi, Dottore, Assegnista di Ricerca, Docente, Psicologo e Psicosessuologo
PhD, PostDoc, Lecturer, Psychologist (PsyD), and Psycho-Sexologist (ECPS).

A quali risultati è approdata la ricerca sulla sessualità delle persone con disabilità?
“Negli ultimi anni la ricerca internazionale ha fatto passi da gigante su questa tematica, ma ovviamente c’è ancora tanto da fare. Quando si parla di disabilità, si prende in considerazione un mondo complesso e variegato, con tante sfumature quante sono le persone che lo compongono.
La ricerca, perciò, ha il compito di esplorare non solo le diverse forme di disabilità e il possibile impatto che hanno sull’esperienza sessuale, ma anche quello di offrire una risposta adeguata perché le persone possano incrementare la propria soddisfazione e il proprio benessere, come per esempio un’educazione appropriata e specifica, sia all’affettività che alla sessualità”.
Quali sono i rischi in relazione alla sessualità legata alle fragilità di una persona?
“La sessualità è un’esperienza che può avere rischi potenziali per tutti, persone abili e non. Con questa frase non voglio spaventare nessuno, ma aiutare a comprendere meglio il concetto di rischio che fa sempre parte della nostra vita. Quando si parla di disabilità, nello specifico, credo che i rischi più comuni siano legati all’andare incontro a esperienze poco piacevoli, se non del tutto spiacevoli. Troppo spesso la persona con disabilità viene percepita come fragile e vulnerabile, come persona che deve essere guidata nella sessualità da un partner “abile”, ma questo non è sempre vero. Anzi, dietro questa disparità di potere si può nascondere la violenza psicologica e fisica.
Perciò è importante coltivare una cultura del consenso che possa promuovere una maggiore consapevolezza della sessualità.
Poi ovviamente non possiamo dimenticarci i rischi più “biologici” come dolore, gravidanze indesiderate e infezioni, che sottolineano l’importanza di una cultura della contraccezione e della salute”.
Che ruolo ha la sessualità nella vita di un disabile? Può avere valenza terapeutica?
“La sessualità è un pilastro nella vita di tutti noi, persone con disabilità e senza.
Oltre che avere un ruolo fondamentale nel far esperire un piacere, la sessualità può aiutare a darci validità, a farci sentire meglio con il nostro corpo e con le relazioni. Insomma, ci aiuta ad esprimerci e sentirci più realizzati.
Molte ricerche evidenziano come una sessualità soddisfacente (che non vuol dire per forza frequente) aiuti a migliorare la nostra qualità della vita, con effetti benefici anche sulla salute mentale e fisica, come ad esempio sulla gestione del dolore cronico”.
Quali sono le differenze più rilevanti tra l’affettività vissuta da una persona con deficit motori e chi ha invece una difficoltà cognitiva? E viceversa tra chi ha una disabilità congenita, ovvero che nasce con una patologia, e chi, al contrario, per varie ragioni ne “acquisisce” una?
“La differenza principale sta negli strumenti a disposizione e in come la sessualità è cresciuta con noi e con il nostro corpo.
Nel caso di deficit motori o sensoriali, il corpo “diverso” limita alcune espressioni sessuali, ma ne valorizza delle altre. Il corpo è sempre il nostro strumento con cui esplorare la sessualità e che può giovare di alcuni ausili come sex toys, posizioni specifiche e suggerimenti pratici.
Nel caso di un deficit cognitivo, la sfida principale è costituita dalla valutazione della consapevolezza dell’esperienza che si sta vivendo e la capacità di relazionarsi con l’altro e con la sessualità. Come si può parlare di consenso se non siamo sicuri che la persona sia pienamente consapevole di quello che sta per accadere?
Rispetto al “quando” si acquisisce la condizione di disabilità, ci sono differenze importanti. Quando la disabilità è con noi sin dalla tenera età, lo sviluppo può essere più fluido, ma si può aver bisogno di assistenza nel processo di adattamento per vivere una vita sessuale piena e soddisfacente.
Diverso è il discorso per un’acquisizione più tarda, in età adulta, in cui la propria esperienza di sessualità deve essere riscritta e modificata, in linea con la situazione presente. La memoria è sempre presente e il confronto con il passato è molto facile.
In ogni caso il processo di sperimentazione e esplorazione della sessualità può essere difficoltoso per tutti e un supporto potrebbe essere molto utile, soprattutto nelle fasi più critiche”.
La sessualità è una realtà comune anche per persone autistiche?
“Assolutamente si, ma qui conosciamo ancora troppo poco per sapere come nello specifico. Cerco di spiegarmi meglio. Le manifestazioni dello spettro autistico sono talmente tante che non sappiamo ancora con precisione come la sessualità si inserisce e si declina in ognuna di queste sfumature. Questo è uno dei filoni di ricerca più attuali in campo accademico”.
In che maniera può essere espressa la sessualità da una persona disabile, che ha quindi qualche ostacolo, fisico o mentale, in più rispetto ad altri?
“Ci sono infiniti modi di esprimerla. Il nostro limite è solo la fantasia. Ma mi permetto di aggiungere che una certa rilevanza in più dovrebbe averla anche la salute e l’evitare rischi maggiori. Perciò è importante trovare spazi adeguati, privacy e mezzi per godere a pieno della sessualità, anche educando a come stimolarsi nel modo più salutare e soddisfacente”.
Quali e quanti modi ci sono per manifestare un piacere?
“Anche qui la mia risposta è: Infiniti. Quando si parla di piacere si va dalla sensazione di piacere/ benessere psicologico che si può sperimentare nella vicinanza e nel contatto con l’altro, a pratiche sessuali di tutti i tipi. L’unico limite è veramente la nostra fantasia e gli stereotipi che abbiamo sulla sessualità, che spesso ci impone dei paletti molto limitanti”.
Quanto male può fare reprimere le proprie pulsioni sessuali, quali danni psichici può cagionare?
“Non è facile rispondere a questa domanda, ma l’insoddisfazione e lo stress sono alla base di molte difficoltà psicologiche.
Sono come delle pietre che appesantiscono il nostro carico quotidiano, e la sessualità a volte ci aiuta a scrollare temporaneamente questo peso di dosso, a ricaricarsi e sentirci meglio con noi stessi”.
Come viene vissuta la sessualità da una donna o da un uomo con qualsiasi tipo di disabilità? Ci sono differenze o analogie di approccio tra i due sessi?
“Ci sono differenze principalmente fra le persone che fra i generi, ma ovviamente gli stereotipi e le credenze sul maschile e sul femminile hanno un peso rilevante quando si parla di sesso. Per una donna, il connubio fra sesso e amore è ancora forte, quindi esprimere la sessualità al di fuori di una relazione romantica può essere difficile. Questo vale sia per i rapporti occasionali, sia per la masturbazione, che spesso vengono negate o taciute. Per un uomo, la sessualità potrebbe essere più facilmente intesa come un bisogno e accettata, come ad esempio nel caso della masturbazione. Allo stesso tempo, l’idea di performance (cioè essere in grado di dimostrare la propria potenza, virilità e capacità di soddisfare il partner) è molto forte nel maschile (e sta crescendo anche nel femminile)”.

Quali sono le paure e le difficoltà più frequenti che esprimono i suoi pazienti?
“Il bisogno di essere riconosciuti come persone, ancor prima della disabilità che li accompagna.
Questo è un elemento inscindibile in tutti noi, che spesso muove la nostra ricerca di approvazione e di appagamento”.
Cosa pensa del ricorso alle escort, modalità diffusa, soprattutto in passato. Una strada battuta dai genitori di ragazzi non autosufficienti, per dare loro l’opportunità di vivere la sfera più intima di sé?
“Non ho un giudizio specifico, è una realtà e a volte una necessità per alcune famiglie (anche attualmente… non credo sia un fenomeno in diminuzione). Il vero problema è che spesso non rappresenta una soluzione adeguata che soddisfa tutti gli attori in gioco (la persona con disabilità, le famiglie e i/le sex worker, operatore del sesso). Penso che sia più importante valutare caso per caso, soprattutto alla luce della figura dell’assistente sessuale”.
Quale è il suo punto di vista sui Lovegivers, assistenti sessuali, una figura professionale non ancora legalmente riconosciuta in Italia, che sopperisce alla non autonomia di un disabile durante un rapporto sessuale singolo, di autoerotismo, e di coppia?
“Sono favorevole, soprattutto se, come spesso ribadito da Massimiliano Ulivieri, che ha ideato il Progetto Lovegiver, e da tutta la sua squadra, c’è una formazione professionale e un progetto di supporto della persona che la porta ad una maggiore libertà e autonomia sessuale. La vera difficoltà sta nel garantire una formazione adeguata e un controllo della corretta professionalità di questa figura, come dovrebbe essere per qualsiasi altra figura assistenziale o della salute che si rapporta con soggetti “potenzialmente fragili””.
Perché nell’immaginario collettivo vi è una scarsa rappresentazione, anche figurativa, per ciò che concerne la sessualità dei disabili, preferendosi piuttosto pensare che questi siano individui asessuati?
“La maggior parte delle persone con disabilità viene erroneamente percepita come asessuata, soprattutto da chi ci è meno a contatto. Disabilità e sessualità possono essere tabù che si sommano. Questo è un discorso complesso che riguarda aspetti storico-culturali e psicologici. Molto è legato all’aspetto di “prendersi cura” che releghiamo all’immaginario della persona con disabilità e alla paura generale per la sessualità come qualcosa di pericoloso, sporco e cattivo (il sesso è un tabù per tutti).
Il fatto di essere accuditi può far sentire una persona come “incapace” di esprimere desideri e fare delle scelte autonome per la propria sessualità”.
In che modo, secondo la sua esperienza, si può educare ad una sessualità “diversa”? Quali sono i passi da compiere in tal direzione?
“Prima di tutto dovremmo avere un’educazione affettiva e sessuale rivolta a tutti (non solo alle persone con disabilità, ma anche alle famiglie e alle istituzioni). Un’educazione efficace permette di aprire canali di comunicazioni e capire le necessità dell’altro, oltre che trovare strategie per migliorare la propria condizione. Ad oggi, l’educazione sessuale comprensiva sembra essere un lontano miraggio nel nostro paese, anzi, spesso si teme che parlare di sessualità, emozioni e relazioni possa provocare danni anziché prevenirli e stimolare alla crescita e al pensiero critico”.

Se dovesse rivolgersi ai genitori di ragazzi adolescenti che cominciano a sentire i loro primi impulsi sessuali, cosa direbbe loro?
“Beh, direi semplicemente di non aver paura di chiedere ai propri figli come si sentono e che cosa stanno vivendo; di fermarsi ad ascoltare la loro voce senza per forza dover dare risposte (spesso le risposte non ci sono e si troveranno solo con il tempo).
Inoltre, l’atto più coraggioso in queste situazioni è quello di chiedere aiuto e farsi aiutare da dei professionisti mettendosi in discussione e dandosi la possibilità di crescere come famiglia”.
E cosa direbbe invece, a chi, già in età adulta, non accetta la propria fisicità e per questo teme il rapporto con l’altro sesso o con persone del suo stesso sesso?
“Direi che le relazioni possono essere complicate ed è totalmente comprensibile che possano far paura. Il nostro corpo è una parte del nostro biglietto da visita, ma per fortuna non lo completa. Forse il regalo più grande che possiamo fare a noi stessi è iniziare a costruire una relazione positiva proprio con il nostro corpo, per permetterci poi di sperimentarci anche con l’altro.
Questo è un processo non lineare, fatto di salite e discese, ma sono convinto che valga la pena di essere vissuto”.