Quali sono le esperienze delle mamme di figli autistici? Benedetta Demartis ha 68 anni. Da trenta è mamma di Giulia, una ragazza autistica con ritardo cognitivo medio grave. Se oggi è difficile avere una corretta diagnosi di autismo in tempi brevi, immaginatevi le difficoltà negli anni 90’.
Giulia ha ricevuto la sua diagnosi a quattro anni, un tempo infinito rispetto a oggi dove i bimbi possono essere diagnosticati anche a 18 mesi e, se si inizia subito l’abilitazione, si possono ottenere risultati incoraggianti.
Quel ritardo nella diagnosi ha segnato il percorso di Giulia. E Benedetta ha sofferto in un modo particolare e molto personale. Ha lottato per una figlia che non ha mai voluto abbracciarla o baciarla. O toccarla.

Perché certe forme di autismo sono così: le persone alzano dei muri, anche nei confronti di chi li ha messi al mondo.
Una madre, per un soggetto autistico, può essere una perfetta estranea. E più che la sindrome, Benedetta ha sofferto questa totale assenza di legami.
Perché dopo una vita di sacrifici, non poter contare neanche sul sorriso di tua figlia che ti rifiuta, è dura.
Credi che sia colpa tua, credi di aver fallito.
Credi di non meritare quell’amore, mentre in realtà quella figlia ama, ma non riesce a esprimerlo.
Non si può sapere cosa accade in quel mondo, dietro a quelle mura così fitte che neanche l’amore riesce a scalfire.
L’intervista
Decido di intervistare Benedetta per chiederle di raccontarmi la sua storia di mamma e caregiver.
Mi accoglie nel suo appartamento a Novara, semplice, ordinato. Ogni stanza è luminosa.
Tranne quella di Giulia: una stanza buia dove si intravede il classico letto con armadio a ponte, una scrivania, una tv.
Niente pupazzi, poster, foto. Niente trucchi, accessori, sciarpe. Nulla che faccia pensare che in quella stanza ci viva una giovane donna di trent’anni. Perché a Giulia dei suoi trent’anni interessa poco. In quella stanza ci sta volentieri solo per guardare i cartoni animati.
Ci accomodiamo in salotto, di un bel rosa antico. Benedetta si siede sul divano, io su una poltrona.
Ha un sorriso contagioso Benedetta, si percepisce il suo animo gioviale dietro quegli occhi stanchi.
C’è amore in quella casa. In ogni singolo angolo.
Le chiedo di raccontarmi tutta la storia.
Una diagnosi tardiva
“I medici all’inizio hanno fatto fatica a capire che Giulia avesse dei problemi. Ma noi in casa percepivamo che questa bimba non riusciva a relazionarsi. Ero trasparente per lei, non mi vedeva, non mi ascoltava. Eppure, non era sorda. Anzi, era una bimba vispa. Ma rifiutava qualsiasi abbraccio, mio e del mio compagno. Gridava sempre. Giulia, semplicemente, non ci riconosceva”.
Esordisce così Benedetta. Non c’è neanche bisogno che le faccia una domanda specifica.
Prima dell’arrivo di Giulia, Benedetta aveva avuto un’altra figlia, Anna. Neurotipica, in gergo medico.
Senza autismo, per dirla chiara.
Non aveva idea quindi di cosa stesse accadendo, Benedetta non si capacitava di avere avuto una figlia così diversa.
Fin dalla nascita Giulia era stata una bimba inquieta. Anzi, fin dal pancione: “Già in gravidanza percepivo qualcosa di diverso – mi racconta Benedetta – era un movimento unico, non stava mai ferma per venti ore al giorno”.
Da neonata piangeva sempre, 12 ore al giorno di pianti continui. “Quando l’ho portata in ospedale a pochi mesi mi hanno detto che era tutto normale. Anche perché Giulia fisicamente era perfetta. Mi dicevano che era depressione primaria precoce. In un neonato?? Non ci ho mai creduto. Sapevo che qualcosa non andava. I rumori le davano fastidio in modo eccessivo. Mangiava solo latte e biscotti (così, fino a 6 anni!) e non voleva assaggiare nient’altro”.
Giulia aveva un autismo non verbale. Parlava, a modo suo: “Sapeva dirmi tutti i tipi di biscotti che le piacevano, ma poi basta. Decideva lei quando parlare” mi dice, abbozzando un sorriso.
Poi si schiarisce la voce, cambia posizione sul divano. Il viso le si illumina, per un attimo: “C’era solo un momento in cui Giulia era presente. Quando la portavo sull’altalena. Se la spingevo forte, lei mi guardava negli occhi, come a dirmi di continuare, come a dirmi che lì, con me, stava bene”.
Per avere una corretta diagnosi hanno atteso anni. Dopo diversi viaggi lungo tutta la penisola, a Bologna e Siena Benedetta e il compagno ricevono la diagnosi di autismo per la figlia.
Giulia ha quattro anni.
“Qui a Novara i medici che frequentavo non volevano accettare questa diagnosi. Continuavano a dirmi che si trattava di depressione, che si poteva curare. Il mio compagno ci ha voluto credere, ha abbracciato questa diagnosi perché l’altra gli faceva troppo paura. E così mi sono ritrovata sola. Io sapevo che era autismo e provavo a farla seguire per questo, lui invece insisteva a farla curare per la depressione”.
E così la famiglia si è spezzata. “Ci siamo lasciati per questo. Non eravamo nemmeno più capaci di soffrire insieme”.
Sentirsi rifiutata, il dolore più grande per Benedetta
Da quel momento per Benedetta inizia una nuova vita. È una gran lavoratrice: ama il suo lavoro, il confezionamento di abiti. Ha un laboratorio tutto suo. E dopo la diagnosi, tutti si aspettano che chiuda per dedicarsi a Giulia, ma Benedetta resiste.
Cerca aiuto e riesce a non smettere di lavorare: “Il lavoro mi ha salvato – mi dice con lo sguardo velato – avevo bisogno di un posto che mi salvasse da quella vita, un angolo tutto mio dove ritrovarmi. Perché non sono solo madre, sono anche una donna”.
Alla fine con l’ex compagno riescono a trovare un modo per stare con la piccola Giulia, ognuno con i propri tempi. Il papà, impiegato dell’Enel, riesce a gestirsi l’orario in modo autonomo e passa molto tempo con la figlia: “La riempiva di stimoli, le parlava tanto – mi racconta Benedetta, con una punta di orgoglio e di riconoscenza – e si aspettava che lo facessi anche io. Ma io ci ho messo tanto ad accettare la ritrosia di Giulia. Io come mamma mi sono sempre sentita ferita. Non mi cercava mai, quando mi avvicinavo sul divano, lei si scostava. Lo faceva e lo fa ancora, sia con me sia con il papà, ma il mio compagno non la prendeva sul personale. Aveva capito che il mondo di Giulia era pieno di muri. Io invece ci soffrivo, vivevo il suo distacco come un rifiuto”.
Benedetta e Giulia sono andate spesso dallo psicoterapeuta insieme, per lavorare su questa relazione invisibile. Ci sono andate per cinque anni, ma senza risolvere nulla. Perché il problema non era emozionale o relazionale.
“Il fatto che per lei fossi una qualunque mi feriva. Perché quando si ha un bimbo malato, per quanto può essere grave la disabilità, questi restituisce sempre un sorriso, con il viso o con gli occhi. Mia figlia invece non mi sorrideva mai. La madre che era in me non accettava di essere vista come un’estranea. L’avevo partorita, mi ero presa cura di lei, l’avevo amata. Come era possibile che tutto questo non riuscisse a scalfire, a superare, i muri che abitano la mente di mia figlia?”.
Solo quando Giulia compie dieci anni, Benedetta inizia ad accettare la relazione. Capisce che i rifiuti non sono rifiuti verso di lei, comprende che non c’è nulla di personale. Che Giulia è così, con chiunque.
A quel punto, Benedetta inizia a studiare l’autismo. Capisce che tutto quello che avevano fatto fino a quel momento, era sbagliato: “Con i nostri atteggiamenti anticipatori noi peggioravamo la situazione – mi spiega Benedetta – non la educavamo: lei gridava per ottenere le cose e noi l’assecondavamo per farla smettere di gridare”.
Benedetta decide quindi di fondare, insieme con altri genitori, l’Associazione Nazionale Genitori Persone con Autismo (ANGSA) a Novara, con l’obbiettivo di sensibilizzare i medici che non conoscevano questa sindrome e di formare centri specializzati nel trattamento dell’autismo. Oggi ANGSA Novara conta 20 specialisti e gestisce 180 famiglie sul territorio.
L’associazione poi ha assunto un carattere nazionale e Benedetta ne è stata la presidente.
Il lungo percorso di Giulia

Benedetta si alza dal divano e mi fa segno di seguirla. Alle pareti del corridoi sono appese diverse foto. In una si vede Giulia piccolina e, vicino, oggi a trent’anni.
“Adesso in ospedale la diagnosi di autismo si può ottenere già a 18 mesi – mi dice Benedetta mentre guarda anche lei questa foto – e prima si inizia con l’abilitazione, maggiori risultati si possono ottenere: si può lavorare sull’aggressività, sulla gestione e il riconoscimento delle emozioni. A 18 mesi la plasticità del cervello è diversa rispetto a undici anni, quando mia figlia ha iniziato la riabilitazione. Per lei era troppo tardi”.
E purtroppo Giulia non riuscirà mai a superare o migliorare quel ritardo mentale. Va a scuola fino alle magistrali, ma ancora oggi non sa leggere né scrivere.
“A scuola era una bambina dolce – sussurra la madre – Con i compagni non ci sono mai stati problemi. Anche perché quando aveva le sue crisi di aggressività, le sfogava su sé stessa. Si picchiava la testa da sola, quando aveva le crisi, e non ha mai messo le mani addosso a nessuno”.
Anche sulla scelta dell’abilitazione, Benedetta e il suo ex compagno non hanno visioni concordanti: “Io volevo portarla ai centri diurni, dove poteva stare con ragazzi come lei. Perché solo in questi centri lei poteva avere occasione di relazionarsi con qualcuno. Il padre invece non cedeva all’idea. E forse aveva ragione. Nei centri mia figlia peggiorava. E così l’abbiamo tolta. Oggi vive con il papà, che è andato in pensione. E sta con me nei fine settimana”.
Con il padre, Giulia dà il meglio di sè. Ma Benedetta non sembra soffrirne: “Succede anche normalmente. Le figlie di solito adorano i papà!” mi dice sorridendo.
Poi si risistema sul divano, si guarda le mani. Sorride. “Il mio ex compagno è molto più bravo di me con Giulia – ammette, sospirando – come coppia abbiamo fallito ma lui è un papà straordinario”.
Poi si lascia andare, appoggia la schiena sullo schienale del divano. Guarda il soffitto per un attimo e poi riposa lo sguardo sul mio. “E forse anche io ho fallito con Giulia. Se avessi potuto tenerle la mano, baciarla…forse sarebbe stato più facile per me. Invece, sacrificarsi per una figlia che non riesce nemmeno a guardarti in faccia…è dura”.
Si ferma, il nodo in gola è troppo forte.
Va in cucina. Mi chiede di sedermi e aspettare.
Torna poco dopo con un album di fotografie, di quelli grandi da matrimonio. Niente foto da sposa. Solo ritratti della sua famiglia. E della piccola Giulia.

Sfoglia le pagine silenziosamente.
Poi riprende, come rispondendo a una domanda che in realtà non le aveva fatto nessuno: “Ho dato e fatto tutto quello che era nelle mie possibilità. Ma la verità è solo una: l’autismo mi ha sconfitto. Io mi sento sconfitta”. Parla alle pagine che sta sfogliando, non solleva lo sguardo da quelle foto.
Ed ecco un’immagine di Giulia piccolina. Benedetta l’accarezza, come se potesse farlo davvero. E poi la voce si rompe: “Giulia va protetta. È una bimba nel corpo di una donna. Chiunque potrebbe farle del male e non saprebbe come difendersi”.
Mi fa vedere la foto di una bimba con i capelli chiari. Non è Giulia. “Questa è Anna, la mia prima figlia. Anche con lei ho rimpianti perché non le ho dedicato il tempo che avrei dovuto donarle”. Le torna il sorriso, per un attimo. Oggi hanno un bel rapporto, si vedono spesso. Mi mostra una foto di Anna, questa volta senza capelli e con il viso sofferente: “Abbiamo passato un brutto periodo. Anna ha avuto un tumore. Ora è passato tutto. Ora sta bene”.
Le parole rimangono sospese nell’aria. Neanche il tempo di farle sedimentare e Benedetta chiude l’album.
Torna in salotto. Si risiede sul divano.
La seguo.
L’autismo non si riesce ancora a comprendere
Percepisco una furia dietro quegli occhi così belli e calmi: “L’autismo non lo ha ancora capito nessuno, sa? Non c’è una formazione corretta degli specialisti. Ogni professionista ha una sua scuola di pensiero. Oggi tutto quello che hanno gli autistici è qualche ora di logopedia e psicomotricità alla settimana, quando in realtà ci sarebbe bisogno di almeno 20 ore settimanali di abilitazione con pedagogisti e psicologi”.
Benedetta, che nel 2014 è stata anche nominata Novarese dell’anno, è un fiume in piena: “Le leggi ci sono, ma il Ministero non ha saputo trasferire le competenze necessarie alle varie Regioni e ogni realtà si organizza come vuole. E così ci ritroviamo Asl in cui lavorano primari che ci credono, e altre in cui l’autismo è sottovalutato. Non ci sono risposte omogenee. E il problema inizia all’Università, perché alla Facoltà di Medicina l’autismo viene spiegato in modo molto superficiale”.
Non ci sono cure, perché ancora non si è capito quale sia la causa dell’autismo: “Ci sono problemi a livello neuronale e sinaptico, ma non abbiamo concluso nulla e oggi chi è autistico può essere controllato solo con gli psicofarmaci”.
La speranza per Benedetta è che, con le diagnosi sempre più anticipate, i bimbi possano essere recuperati in tempo. Un’opportunità che Giulia non ha avuto.
Vivere il presente
L’intervista finisce. Benedetta si offre di accompagnarmi alla macchina e mi chiede se nel tragitto vogliamo fermarci a bere un caffè.
Attraversiamo il bellissimo parco Allea San Luca che si trova proprio nel centro cittadino. Mi dice che ogni sabato, quando viene Giulia, fanno una passeggiata in questo parco, si prendono il caffè (Giulia lo adora) e poi alla sera vanno a mangiare in pizzeria. Mi racconta del fiato sospeso quando entrano nel ristorante, dell’ora passata a mangiare la pizza sperando che Giulia non si alzi e inizi a girare fra i tavoli. Me lo racconta sorridendo, come una mamma che racconta a un’amica l’ennesima marachella del figlio. “Una volta in un bar si è avvicinata a un signore che stava prendendo l’aperitivo e ha iniziato a mangiare le sue patatine!”. Ride di gusto, Benedetta.
Gli occhi sorridono di nuovo.
“A Giulia posso offrirle solo questo – mi dice guardando gli alberi che ci circondano – un giro al parco, una serata in pizzeria. A sessantotto anni non posso fare molto di più e non ne ho più le forze”.
E lascia quella domanda in sospeso. Che succederà “dopo”?
Ma non ne parliamo. Ora è importante il presente. E bisogna fare in modo che per Giulia sia il più bello possibile.