Entrare nel mondo dei suoi ragazzi con difficoltà fisiche ed intellettive, sino a toccarne l’anima, dà un senso compiuto alla “sua missione”. Quella che vi invito a leggere, è la storia emozionante di un operatore sanitario psichiatrico che vive, da anni, in perfetta simbiosi con le persone di cui cura anima e corpo, condividendone gioie e difficoltà. La disabilità, una realtà che molti schivano, è stata, e continua ad essere, al centro del suo mondo che si intreccia con quello di ciascuno dei suoi pazienti. Un lavoro che ha sognato di fare sin da bambino, lottando incessantemente per far conoscere agli altri la diversità, una prerogativa in più di cui non aver paura.

Fabrizio Mazzocchi
Fabrizio, infermiere ed assistente sanitario con specializzazione in psichiatria, sognava sin da piccino di poter essere d’aiuto agli altri, prendendosi “cura” della loro anima.
“Babbo, da grande vorrei tanto poter aiutare le persone in difficoltà” diceva a suo padre che gli rispondeva: “figlio mio, quello è un mestiere molto difficile che richiede tanto studio e passione”.
In cosa consiste il tuo lavoro?
“Lavoro da venticinque anni nella disabilità, considerando da sempre l’impegno con i miei ragazzi, come una missione, da vivere, per ed insieme a loro. Una disabilità che spesso diventa abilità.
Attività che ha come centralità il valore intrinseco di ciascun individuo, il prendersene cura, ma non dal punto di vista farmacologico, nel qual caso, si può avere la meglio sulla malattia, ma si può anche uscirne perdenti, bensì aver “cura “ della loro essenza, ed è proprio allora che l’esito raggiunto non può che essere un successo”.
Dove lavori?
“Fino al marzo del 2021 ho prestato servizio presso un centro diurno per disabili fisici e psichici. La struttura era suddivisa in reparti, distinti in base alla gravità della patologia: handicap lieve, moderato e grave, essendoci inoltre un padiglione destinato ai disturbi psichiatrici ed uno riservato ai traumi cranici dovuti ad incidenti stradali.
Un nuovo settore questo, creato dall’Asl del basso polesine, poco prima che andassi via da quella struttura. Attualmente lavoro, tramite il Tribunale Minorile, nella Casa circondariale di Bologna, dove ci sono minori con deficit psichici, più o meno importanti”.
Chi sono le persone che aiuti attualmente e chi hai aiutato in passato?
“Non sono lì per aiutare qualcuno, ma più semplicemente per mettermi a disposizione delle persone con cui lavoro, entrando pian piano a far parte del loro mondo e prendermi cura del loro corpo e della loro anima. Per me è uno stile di vita.
Trascorrendo gran parte della giornata insieme, si finisce inevitabilmente con il diventare uno di essi”.
Come si svolge concretamente la tua “missione”?
“Nell’esserci sempre, nei momenti belli, nelle difficoltà di ciascuno di loro, nelle emergenze, calandomi nella dimensione delle differenti forme di disagio di ognuno di essi, senza perdere mai di vista la finalità della mia missione, ossia di far conoscere agli altri la realtà della disabilità, affinché si possa comprendere che essa non è una condizione da cui fuggire, o peggio ancora, da nascondere, così come accadeva in passato quando, alle primissime aperture dei centri diurni, si censirono decine di disabili, “figli diversi”, di una società poco accogliente, che se ne vergognava, tanto da tenerli reclusi nel loro guscio.
Disabilità, come risorsa che si traduce nella bellezza delle differenti abilità: ecco, è questo ciò per cui lotto ogni giorno, contribuire alla costruzione di una concreta integrazione delle persone più vulnerabili nel tessuto sociale delle nostre comunità.
A quali emergenze ti riferisci?
“Sono diverse le emergenze a cui un operatore sanitario deve essere preparato a far fronte, da quelle più piccole, quali possono essere, ad esempio, le difficoltà ad esprimersi, rispetto alle quali devi essere tu, infermiere, ad avere la capacità di comprenderne “istintivamente” le necessità, oppure le grandi emergenze come quelle di chi si fa i bisogni fisiologici addosso: lì devi essere pronto non soltanto ad accudirlo in quella necessità, quanto a restituirgli la dignità che in quella condizione viene facilmente meno. Vi sono poi persone che mangiano attraverso nutrizioni enterali, modalità che richiedono la capacità di saper mettere in atto le procedure idonee affinché possano riuscire a farlo correttamente; c’è chi lo fa autonomamente, ma ha ugualmente bisogno di qualcuno che gli stia accanto per intervenire, con tempestività, nel caso in cui un boccone o un sorso d’acqua gli vadano di traverso. Un operatore socio sanitario, un educatore, un infermiere devono sempre trovarsi pronti, esser preparati a lavorare con l’emergenza ed anche se certe situazioni non capiteranno mai, è in ogni caso necessario essere pronti a fronteggiare qualsiasi eventualità, piccola o grande che sia, visto che oggigiorno i centri diurni ospitano prevalentemente persone disabili gravi”.
Ad oggi, si ha ancora paura della diversità?
“Si, purtroppo la nostra società non ha ancora la cultura della diversità.
Si fa ancora fatica persino ad insegnare ai bambini normodotati cosa sia la disabilità.
Nel luglio caldissimo di qualche anno fa, è capitato che dovessi andare a fare una terapia domiciliare. Nei dintorni di quella abitazione, ancora oggi, si trova un istituto scolastico, di fronte al quale, da anni, c’è un centro residenziale per disabili. A causa del gran caldo, quel giorno, le finestre della scuola erano aperte e, andando a riprendere la mia auto al parcheggio lì vicino, potei sentire chiaramente ciò che dicevano alcuni bambini che osservavano incuriositi in direzione dell’abitazione di quei ragazzi.
“Maestra, che cosa c’è lì di fronte?” chiese un alunno. Lascia stare, lì ci sono gli handicappati, mmm… “ fu questa la risposta rapida e cruda della docente.
La stessa indifferenza che si riscontra abitualmente nella vita di tutti i giorni.
Sono poche, purtroppo, le persone realmente interessate a spiegare ai loro figli che cosa sia la disabilità, perché non hanno voglia di perder tempo a dare spiegazioni su qualcosa che non le riguarda direttamente. È un puzzle che va sgretolandosi, quel tassello mancante, essenziale per la costruzione della cultura del diverso, ancora molto lontana da noi, e questo è un vero peccato”.
Perché hai scelto di svolgere questa professione?
“Non sono stato io a sceglierla, è stata lei a venire a cercare me.
Mio padre mi racconta spesso questo aneddoto della mia infanzia:
Un giorno vedemmo per strada un ragazzo in carrozzina. Liberasti di scatto la mia mano e, alzato il capo, mi guardasti negli occhi e mi dicesti: babbo, a me piacerebbe un giorno stare con loro. Ti rispondevo che quello era un lavoro difficile che richiedeva studio e tanto impegno, un lavoro che non tutti possono fare.
Ho iniziato all’età di diciotto anni a lavorare come tirocinante nei centri diurni per disabili e per malati psichiatrici, avendo già completato il corso di formazione quando ne avevo diciassette, per frequentare il quale fu necessario, non essendo ancora maggiorenne, il consenso dei miei genitori”.

Fabrizio e un suo paziente
Rapportarsi con chi ha difficoltà psichiche non è semplice
“No, non lo è, ma può diventarlo. Devi immaginare la persona con problemi psichiatrici, come chi ha una grossa mole, un po’ come i protagonisti del programma televisivo “vite a limite”, stazza che si frappone tra lui e te, uno scudo dietro il quale lo stesso camuffa la propria essenza. Nel momento in cui, in punta di piedi, riesci ad entrare nel suo mondo ed a oltrepassare quella barriera, diventi parte di esso anche tu.
In fondo, il cuore della psichiatria è questo, l’esser in grado di arrivare a toccare l’io più intimo di una persona”.
Che ruolo gioca l’empatia, soprattutto con i tuoi “ragazzi” con disturbi psichici?
“È l’elemento primario, imprescindibile, sia nel primo approccio con una persona che non conosci, sia nel proseguo del suo percorso terapeutico. Calarsi nel suo stato d’animo e comportamentale, secondo me, è di fondamentale importanza sin dalla prima volta che guardi gli occhi di chi ti sta di fronte”.
Quali sono state le difficoltà che hai incontrato nel tuo percorso?
“Soprattutto riguardo alle malattie mentali, le difficoltà sono state numerose. Quando si ha a che fare con una patologia importante nel suo stadio acuto, si è dinanzi ad una persona da convincere della necessità che, per poter star bene e condurre una vita normale, debba seguire un percorso riabilitativo.
Il ruolo di un infermiere psichiatrico diventa ancor più difficile quando si tratta di dover dare attuazione ad un trattamento sanitario obbligatorio, circostanza nella quale si è spesso costretti a mettere in atto una “strategia d’inganno” che incide negativamente sul suo rapporto di fiducia nei tuoi confronti, ma che è indispensabile per il suo benessere.
Ed è proprio a partire da lì che ha inizio il tuo personale viaggio di riconquista della stima persa del tuo paziente, cercando di far capire a chi alla fine ha afferrato la tua mano tesa, che sei stato costretto a carpirne la fiducia, che lo hai fatto per lui e che in quel momento eri il suo “paracadute”, la sua “ancora di salvezza”.
Che soddisfazioni hai raccolto nel corso della tua carriera?
“La soddisfazione più grande che ricevo tutti i giorni, sta in uno sguardo, in un sorriso, in un gesto.
C’è chi riesce ad esprimere verbalmente il proprio affetto, altri che non riescono a parlare ma che trovano un loro modo per farlo, chi invece lo fa tramite l’ausilio di comunicatori, chi si aggrappa con istintiva impetuosità a te, chi lo dice piangendo o lo esprime con un semplice disegno. Non dimentico però anche le numerose manifestazioni di gratitudine ricevute dai loro genitori, duramente provati dal malessere dei loro cari”.
Sfide future?
“Oltre ad esercitare da venticinque anni nella disabilità e nella psichiatria, da anni, gioco a calcio, a livello professionale ed ho conseguito da poco il Patentino UEFA B da allenatore. Con la collaborazione di un preparatore fisico, abbiamo formato e stiamo allenando, nell’alto ferrarese, una squadra di atleti con disabilità fisiche ed intellettive, che debutterà il prossimo anno, in un campionato ufficiale amatoriale.
La nostra iniziativa vuol lanciare un nuovo messaggio e cioè che la disabilità non esiste, ma che esiste solo l’estro e la fantasia, dimostrando altresì che con la disabilità è possibile costruire qualcosa in più rispetto a chi è abile”.
Cosa ti ha insegnato il tuo lavoro?
“Sono tanti gli insegnamenti che ho tratto dal mio lavoro, ma ho tantissimo altro ancora da imparare.