“La fibromialgia mi ha privata della mia vita precedente, cambiando le carte del gioco che ho dovuto rimescolare per reinventare il mio presente. Il mio universo è racchiuso in una stanza, trascorro le mie giornate dietro lo schermo di un pc, che mi permette di essere ancora protagonista della mia esistenza”.
Barbara Suzzi, Presidente di “Comitato Fibromialgici Uniti-Italia,” convive da dieci anni con la fibromialgia, una patologia di difficile diagnosi, che provoca dolore e stanchezza cronica, avendo un’incisività negativa sulla qualità della vita delle persone che ne sono affette.
Che cos’è la fibromialgia?
“La fibromialgia è una malattia che non coinvolge soltanto la parte muscolare, in quanto molto spesso fa il suo esordio con sintomi associati quali, ad esempio, il sovrappeso, l’eccessiva insofferenza al freddo o al caldo, problemi all’apparato genitourinario, all’apparato digestivo, e persino alla pelle, quindi dermatiti, pruriti, ipersensibilità olfattiva, funzione temporo-mandibolare. È per questo motivo che viene definita come patologia dei 100 sintomi.
Per fortuna non compaiono tutti contemporaneamente, essendo dolori migranti.
Può accadere infatti che per un determinato periodo si soffre per alcuni disturbi, successivamente ne arrivano altri, quindi diciamo che è una malattia che non ci abbandona proprio mai”.
Quando e come ha scoperto la sua malattia?

Barbara Suzzi
“È accaduto nel 2013. Mi ero appena ripresa da un cancro, quando mi sono ritrovata all’improvviso immobilizzata a letto con dolori atroci. Non riuscivo ad alzarmi se non con l’aiuto di mio marito e dei miei figli. Ho pensato subito ad una paralisi, ma era più che altro un’incapacità a muovermi. Mi era capitato altre volte di star male per le conseguenze dell’attività fisica fatta in palestra.
La sensazione era di avere l’acido lattico sparso in tutto il corpo che mi impediva di muovere persino le dita di mani e piedi. Dalle numerose visite specialistiche fatte in precedenza a causa di altri disturbi, mai nessuno si era accorto della mia patologia, né tanto meno ai vari accertamenti successivamente svolti, è mai emerso alcunché.
Per tutti i medici che ho consultato ero sana come un pesce, ma io continuavo a star male.
Sono venuta a conoscenza dell’esistenza della fibromialgia documentandomi su internet.
Inserendo su Google i sintomi di cui soffrivo, ho fatto io stessa una diagnosi che poi mi è stata confermata dalla reumatologa, esperta in questa patologia.
Come ha reagito alla diagnosi di fibromialgia?
“Vista la mia neoplasia precedente, non ero particolarmente sconvolta da quanto mi fu diagnosticato, ero piuttosto infastidita di avere una malattia poco conosciuta e non riconosciuta, dal volto invisibile e dal nome anonimo.
La tua reazione è un riflesso di come reagiscono gli altri nel momento in cui li metti al corrente di ciò che stai vivendo.
Quando dicevo di essere una malata oncologica, avvertivo empatia ed ammirazione per il modo in cui affrontavo quella difficoltà, e allora iniziavano a dirmi di essere una guerriera. La reazione è completamente diversa quando invece dico d’esser una paziente che soffre di fibromialgia, inizio a vedere ciglia che si inarcano, espressioni tra lo stupito e l’indifferente, perché purtroppo esiste ancora da decenni lo stigma che si tratti di una malattia psicosomatica, nella accezione negativa del termine, legata ad una correlazione mente – corpo e quindi alla preponderanza della parte psichica e psichiatrica.
È stata questa la mia difficoltà maggiore, per far fronte alla quale mi sono documentata con ogni mezzo possibile ed è da lì che è nata poi l’associazione che dirigo.
Sente d’esser una guerriera?
“No, non mi sento una guerriera. Non essendo mai stata in guerra, per fortuna, su di me questo termine non ha nessun appeal. Sono semplicemente una persona che cerca di vivere al meglio la sua vita e di essere d’aiuto per gli altri.
Forse, in quanto madre di due figli, un po’ guerriera lo sono stata nel dimostrare loro che tutto quello che gli avevo insegnato, ossia il non abbattersi, l’esser forti, il non arrendersi, non erano parole vuote, ma qualcosa da mettere in pratica nelle grandi prove a cui la vita ci sottopone quotidianamente.
Considero l’esistenza attuale come la mia vita 2.0, in quanto completamente diversa da quella precedente.
Una volta ero sempre con la valigia in mano, giravo il mondo, oggi il mio universo è chiuso in una stanza.
Vivo a Bologna e il massimo dello spostamento che riesco a fare è quello per andare a Roma, per presenziare ad incontri istituzionali legati all’Associazione oppure per prender parte ai vari convegni che organizziamo in tutta Italia, ma poi quando ritorno a casa pago duramente quelle fatiche, perché per me ormai anche un semplice viaggio in treno comporta uno sforzo di cui il mio corpo risente pesantemente”.
Come vive questa condizione?
“Vivo le mie giornate dietro uno schermo, o meglio, in questo devo ringraziare la tecnologia che rende possibile comunque fare tante cose pur non potendo essere presente fisicamente.
La mia vita è una grande riconoscenza per mio marito e per i miei figli che sono cresciuti facendo i conti anche con la malattia del padre, che ha anche lui problemi di salute.
Sono i miei figli a rendere possibile tutto, occupandosi di tantissime cose.
Io vivo prevalentemente chiusa in casa, lavorando senza sosta per l’Associazione, operativa a livello nazionale, con referenti in tutte le regioni del territorio.
Collaboriamo con le istituzioni regionali, organizzando tante iniziative sul territorio e il lavoro da fare è tantissimo.
Dal punto di vista dell’essere attiva, lo sono, ma fisicamente la stanchezza e la debolezza sono sempre molto forti.
Nonostante, ad esempio, abbia fatto due dosi di vaccino, ho contratto iil COVID e sono più di due mesi che non riesco ad uscirne, in quanto probabilmente il mio fisico è fortemente debilitato, malgrado le tantissime cure ricostituenti fatte.
Il mio è un modo di vivere completamente diverso da quello che era la mia vita precedente, dal quale sono banditi tutti gli sforzi fisici, una camminata, fare la spesa, tutte attività che non svolgo più da tempo ormai”.
Mi parli dell’Associazione CFU “Comitato Fibromialgici Uniti – Italia”
“L’associazione è nata nel 2016, dalla sinergia con alcune amiche “fibromialgiche”, conosciute su Facebook quando, dopo essermi ammalata mi sono iscritta a tutti i gruppi in cui si parlava della mia stessa patologia, con le quali abbiamo deciso di raccogliere firme online sulla piattaforma change.org.
Ben presto capimmo però che le petizioni fatte sul web non avevano il valore, per questo ne promuovemmo una cartacea e ci costituimmo in Associazione.
Abbiamo un direttivo ed un comitato scientifico costituito da medici di tutte le specializzazioni necessarie a chi soffre di fibromialgia, proprio perché la nostra è un’Associazione di malati abbiamo, infatti, bene in mente quello di cui c’è bisogno per avere una vita il più possibile dignitosa.
A distanza da un anno dalla nostra costituzione, ad agosto 2017, siamo riusciti ad avere un incontro ed ad ottenere un’audizione al Ministero e da lì questo rapporto non si è mai interrotto.
Da allora in Italia si sono succeduti tre Ministri nel Dicastero della Sanità e varie emergenze a cui far fronte, che hanno ritardato ulteriormente le cose.
E sì, perché sembra che nel nostro Paese ci sia sempre qualcosa di più importante della questione che riguarda noi malati fibromialgici, che procrastini ripetutamente il riconoscimento di questa patologia.
Erano almeno dieci anni che il Ministero della Salute chiedeva il consensus del mondo scientifico.
Solo a seguito della nostra entrata in campo, tutta la documentazione scientifica necessaria per il riconoscimento e l’introduzione di questa patologia nei LEA (livelli essenziali di assistenza), è stata consegnata.
A che punto è l’iter per il riconoscimento della fibromialgia?
“Ad oggi tutta la documentazione richiesta è stata acquisita dal Ministero.
Il primo incontro che abbiamo avuto con il Ministro Speranza, un mese prima che scoppiasse la pandemia, si concluse con l’impegno da parte sua, che non appena avrebbe rinominato la Commissione LEA, avrebbe inserito la fibromialgia nell’ordine del giorno della stessa.
Una cosa che può sembrare di poco conto, ma che invece è importantissima perché, l’esperienza ci ha insegnato che se una cosa non è scritta nero su bianco in un documento, in pratica non esiste.
È un traguardo di fondamentale importanza, in quanto la fibromialgia è stata davvero inserita all’ordine del giorno della commissione Lea, il DDL 299, sul riconoscimento della fibromialgia come malattia invalidante, di cui prima firmataria è Paola Boldrini, presto approderà al Senato per l’approvazione definitiva, e, per la prima volta, grazie ad un emendamento a prima firma Paola Boldrini è stata prevista anche nella legge di bilancio, con lo stanziamento di cinque milioni di euro.
Cercheremo di fare del nostro meglio per vigilare affinché tutto avvenga per il bene dei malati”.
Qual è la parola che la ferisce di più?
“Più che una parola è proprio l’indifferenza delle persone che mi infastidisce.
Nonostante cerchi di fargli capire, in tutti i modi, cosa provo, di far conoscere loro la situazione, in realtà non sono interessati ad approfondire.
Mi rendo perfettamente conto che sia molto difficile dal di fuori comprendere le difficoltà di una persona con una malattia come questa, che per fortuna o purtroppo, non lascia segni sulla pelle, non si fa vedere, per cui le persone non credono assolutamente che tu stia male, tanto male.
Ad una persona con un braccio al collo, non verrebbe mai in mente di chiedere di fare una partita a tennis, mentre a me sì, perché esteriormente non ho nulla che faccia pensare che dentro di me qualcosa non vada.
“Dai che ti fa bene muoverti un po’”, mi dicono.
Ecco, è questo l’atteggiamento delle persone a cui hai già spiegato tante volte la tua sofferenza, ma che malgrado ciò continua a non capire.
Le mie amiche del cuore, ad esempio, sanno da più di dieci anni le mie difficoltà, conoscono tutto il lavoro che faccio con l’Associazione, eppure nonostante tutto quando mi ritrovo a disdire la nostra pizzata oppure tutte le volte che mi propongono di fare una gita e rifiuto di andare con loro, non ne riescono mai a comprenderne fino in fondo il motivo, è questo a ferirmi di più”.
Cosa le ha insegnato la sua malattia?
“Mi ha insegnato a cogliere l’attimo ed a trarre il buono da ogni esperienza.
Cerco di vivere intensamente le giornate in cui mi sento abbastanza bene, anche se so che poi pagherò ognuno di quei momenti di apparente normalità.
La malattia mi ha regalato la consapevolezza di cose che prima non avevo di me stessa, facendomi conoscere persone che rispetto profondamente a cui sono molto legata. Probabilmente non sono abbastanza saggia o non sono abbastanza zen per dire che le malattie rendano migliori, non dirò mai questo genere di cose.
Quando la vita ti mette in mano determinate carte, oppure ti vengono sottratte parte di esse, devi imparare a giocare con quelle che ti rimangono in mano”.
“Faccio tesoro di una frase, non ricordo chi l’abbia detta, ma mi rispecchia davvero tanto, che esorta ad apprezzare il più possibile quanto si ha, piuttosto che rimpiangere ciò che si è perso”.