La dottoressa Giada Lonati si occupa dal lontano 1995 dei pazienti che non possono guarire. Dieci anni più tardi, nel 2005, fa il suo ingresso in VIDAS, acronimo di Volontari Italiani Domiciliari Assistenza ai Sofferenti, l’organizzazione non profit che da 40 anni si occupa di assistenza ai malati inguaribili a domicilio e in hospice e che, nel 2019, ha inaugurato Casa Sollievo Bimbi, primo hospice pediatrico della Lombardia. Nel 2010 è diventata la direttrice sociosanitaria di VIDAS, culmine di un cammino di altruismo rivolto all’ultimo miglio della vita: quello, per molti, più difficile. Nel suo libro “Prendersi cura. Per il bene di tutti: nostro e degli altri”, con prefazione di Ferruccio de Bortoli (Corbaccio, 248 pagine, 14 euro) racconta i tesori incontrati sul suo cammino: come se l’incontro con la fase finale dell’esistenza le avesse trasmesso una profonda saggezza e una capacità unica di leggere gli interrogativi legati al mistero dell’essere al mondo.
Per Giada Lonati si è trattato di una specie di vocazione. Ricorda perfettamente il momento in cui, appena laureata in Medicina, qualcosa in lei cambiò per sempre: «Mi proposero una borsa di studio nel campo delle cure palliative» racconta «La prima volta che andai ad assistere un paziente a domicilio vissi un’esperienza travolgente. Capii che quello era il viaggio che volevo intraprendere: incontrare la vita nel suo tratto finale».

Nel 1948 l’Organizzazione Mondiale della Sanità definì la salute come “uno stato di completo benessere fisico, mentale, psicologico e sociale”. Un concetto ancora valido?
«Il concetto di salute è in continua evoluzione. Ormai diventiamo vecchissimi, pur avendo il rifiuto di scendere a compromessi con l’invecchiamento, visto come la prima forma di morte. Abbiamo il rifiuto del confronto con il limite, pur sapendo che è impensabile, oggigiorno, l’idea della perfezione a trecentosessanta gradi».
Il rifiuto dell’invecchiamento corrisponde al rifiuto della morte, che non viene nemmeno nominata. Eppure, fa parte della vita.
«Zygmunt Bauman scrisse che, operando una decostruzione della mortalità, abbiamo trasformato il mistero in un rompicapo. Abbiamo rimosso il nostro sguardo da questo aspetto affascinante».
Ne consegue direttamente l’ossessione per la perfezione fisica. Cosa ne pensa?
«Intendiamoci, non ho nulla contro il ritocchino, purché non sia un’alternativa alla cura dello spirito. Perché, quando il corpo si trasforma è lo spirito a prendere il sopravvento: tutto dipende da quanto sappiamo lasciare andare. Dirò di più: il vero peccato non è l’impreparazione alla morte, ma il fatto di non vivere abbastanza intensamente».
Nel suo libro racconta molte storie interessanti e coinvolgenti. Ne ricorda una in particolare?
«Mi capita di raccontare spesso la storia di una paziente mia coetanea, morta nel 2008, quando aveva da poco compiuto quarant’anni. Nel 2005 aveva ricevuto una diagnosi di tumore all’ovaio; perciò si era sottoposta all’isterectomia e alla chemioterapia. Andava in ospedale un po’ spavalda, senza guardare in faccia le altre pazienti. Poi ebbe una recidiva. “Mi sono resa conto di essere come le altre”, mi confidò. Non solo: disse che il suo ruolo sarebbe stato quello di dare coraggio alle donne nella sua situazione. Ebbene, questa donna aveva un progetto: costruire una casa in Sicilia, dove coltivare dei mandorli. Morì con tre mandorle sul comodino: per me, quei frutti sono il simbolo della speranza».
Chi accede alle cure palliative, molto spesso ha alle spalle rapporti difficili con i medici. Cosa si può fare per migliorare questo aspetto delle cure?
«C’è un grande bisogno di formazione umanistica nel mondo medico: negli anni, si sono tralasciati gli aspetti filosofici della medicina, a scapito di quelli scientifici. Ravviso la necessità pratica di dire ai medici che la vita non è solo in ospedale, ma nelle case dei pazienti. Bisogna spiegare che le persone muoiono per l’evoluzione della malattia: la morte non è un errore della vita. Invece, spesso i medici partono da una posizione difensiva, si sentono minacciati, il che crea con i malati una relazione asimmetrica».
Vivono la morte di un paziente come una sconfitta?
«A volte capita. Il problema, però, è il rapporto con l’incertezza. I medici, spesso, vogliono vendere grandi certezze, ma il dubbio fa parte di ogni scienza. Inoltre, va curata la comunicazione che, come sottolinea la legge per le Disposizioni anticipate di trattamento, comunemente note come biotestamento, è tempo di cura a tutti gli effetti».
In “Prendersi cura”, lei sottolinea anche l’importanza del rapporto con i caregiver.
«I caregiver sono curanti e curati. Una ricerca dell’Ospedale Pediatrico di Padova sottolinea come, per ogni bambino malato, almeno trecento persone siano contagiate dalla sofferenza. È, a tutti gli effetti, una piccola società che si ammala. In questo senso, prendersi cura dei caregiver vuol dire mandare nel mondo persone capaci di cura».
Spesso, però, questo accade soltanto nel mondo delle cure palliative…
«Ho in mente le parole di un uomo che trascorse in hospice gli ultimi tre giorni della sua vita. Il figlio mi disse che in quei giorni era rinato, perché veniva trattato come una persona. E come una persona era stato considerato anche chi si prendeva cura di lui. Dovrebbe essere sempre così».