Laura Anelli è una ginecologa, responsabile dei consultori familiari della ASL Roma 1.
Diventare ginecologa è ciò che ha sempre voluto fare. Per aiutare le donne. Perché nonostante i progressi sociali e culturali le donne vivono ancora in una situazione di fragilità. L’episodio più brutto: scoprire per puro caso un tumore al seno in una paziente giovane. Quello bello: far nascere un bimbo da una donna in fuga da Kabul.
Laura, di cosa si occupa esattamente?
Nella ASL Roma 1 mi occupo del coordinamento di tutti i consultori familiari che sono 12 in totale, 2 per municipio. Per la prima volta la direzione della mia Asl ha deciso di sviluppare un coordinamento trasversale su tutti i consultori. È stata una mossa molto importante che ha permesso di dare un’impronta omogenea a tutte le strutture, affinché le donne trovino sempre gli stessi servizi. È importante poiché i territori sono disomogenei e spesso le risposte erano ottime in alcuni consultori e meno buone in altri. Abbiamo quindi uniformato i percorsi e i protocolli in una visione complessiva.
Quale è esattamente il suo ruolo in questa nuova dimensione?
In due consultori opero direttamente come ginecologa, per gli altri svolgo un ruolo di coordinamento. Mi piace stare sul campo, accogliere le pazienti. Ho anche istituito una nuova forma di accoglienza per le donne che si chiama “Sportello donna” e serve a dare una risposta rapida per coloro le quali non hanno un medico specialista che possa compilare certificati o prescrizioni. Prima della COVID lavoravamo senza filtri, senza appuntamenti, c’era un accesso diretto. Adesso ci siamo dovuti, per ovvie ragioni, organizzare.
Perché tra tante specializzazioni ha deciso di diventare ginecologa?
In realtà ho scelto di diventare medico per fare il ginecologo. Sarebbe stata una vera tragedia per me se non ci fossi riuscita! Volevo essere il medico delle donne, qualunque altra specializzazione mi sarebbe stata stretta. Non che non volessi occuparmi degli uomini. Anzi, prendendosi cura delle donne ci si occupa tantissimo anche degli uomini, perché ci si occupa della coppia. Ma fin da piccola avevo questa suggestione, volevo fare questo lavoro.
Nel rapporto quotidiano con le sue pazienti, può raccontarci un episodio positivo e uno negativo?
Quello brutto me lo tolgo subito. Mi occupo anche di ecografie mammarie e un giorno ho intercettato una paziente che mi era particolarmente cara e che conoscevo da quando era piccola. Pochi mesi fa le ho diagnosticato una malattia importante al seno. Questa ragazza ha solo 30 anni e doverle dare quella notizia è stato uno dei momenti più impegnativi della mia vita. Sono circostanze in cui mi capita di pensare: “perché ho fatto questa scelta, perché sono diventata medico?”. Ma, al tempo stesso, questa diagnosi ha permesso alla ragazza di curarsi. È stata una diagnosi fortuita. Quel giorno mi avevano portato un ecografo nuovo e lo volevo provare. Lei era stesa lì per una visita e decisi di fare questa ecografia. Tra l’altro era una ragazza che si sottoponeva a controlli con una certa frequenza, perché sei mesi prima aveva già fatto un’ecografia completamente negativa. Non era né una paziente a rischio, né da controllare quel giorno. È stata una coincidenza incredibile: l’apparecchio appena portato e lei in ambulatorio. A volte penso che ci sia qualcuno che, in qualche modo, dirige “dall’alto” queste situazioni.
Quello più significativo?
Quando abbiamo accolto delle donne afgane. Era il 23 agosto e arrivarono queste pazienti afgane che scappavano da Kabul. In particolare una di loro, che era in gravidanza e stava per partorire. È stato bello far nascere questa bambina confortata da mille coccole. In questo caso si sono mossi tutti. La Regione Lazio ha fatto cose straordinarie per queste donne. Veder nascere questa vita da tanta sofferenza e da tanto terrore è stata la punta più alta della mia professione. I momenti gioiosi sono e sono stati tanti occupandomi anche di ecografia in gravidanza. Vedere sfuggire questa donna da una situazione di grande pericolo e poterla assistere ti fa pensare di aver fatto qualcosa di davvero importante. A volte, infatti, ti senti un po’ inutile, a volte ti mancano i mezzi per arrivare a fare qualcosa di significativo. In questo caso tutti si sono messi a disposizione, ho avuto tutti gli strumenti per aiutarla. È stato molto bello.
Quali sono le criticità che riscontra facendo medicina del territorio soprattutto in questa pandemia?
Paradossalmente la COVID ha fatto la differenza. All’improvviso ci siamo resi conto di quanto sia importante il territorio e di quanto sia stato invece carente. Negli ospedali romani sono state annullate tutte le visite delle donne in gravidanza per ovvie ragioni. Si poteva andare solo a partorire. Quindi, noi come consultori ci siamo trovati ad affrontare questa marea di donne che erano state lasciate da sole, perché non si poteva fare altro. Non solo le abbiamo accolte, ma abbiamo cambiato il nostro modo di arrivare a loro, anche con la telemedicina che ci ha aiutato moltissimo. I corsi di preparazione al parto li abbiamo fatti on line. Le donne così si sono sentite seguite, accudite, non c’è stato il vuoto e questo è stato importante. Abbiamo cercato di creare e mantenere un legame.
Grazie a questi corsi poi siamo entrati in contatto con tanti ragazzi problematici, perché la pandemia ha creato o aggravato situazioni già disagiate. Parlo di situazioni in cui vivevano in 5 in una stanza e, durante il lockdown, essere costretti a stare 24 ore su 24 in quel modo, senza mai poter uscire, ha fatto crescere tensioni e forme di violenza domestica, soprattutto nei confronti delle donne. Siamo riusciti a segnalare molte situazioni davvero incresciose, molte donne sono riuscite a contattarci.
Ma, tornando al territorio, ci siamo resi conto di quanto si possa fare, quanto possiamo evitare di pesare sugli ospedali se lavoriamo bene prima. Quindi, ci occupiamo della donna durante la gestazione e la donna arriva in ospedale solo per partorire. Mentre prima molto si svolgeva solo a livello ospedaliero, fasi che si potevano invece gestire sul territorio. Anche i medici di famiglia si sono rafforzati e organizzati, benché agli inizi della pandemia non fossero preparati ad affrontarla.
Quindi, secondo lei, con la COVID c’è stato uno sviluppo della telemedicina territoriale?
C’è stata un’implementazione di tutto. All’improvviso abbiamo avuto risorse, gli I-Pad per comunicare con le pazienti, siamo stati sostenuti. Tutto quello che si chiedeva da anni è arrivato.
Ad esempio, per i consultori, la novità per l’Italia è stata la messa a punto dell’interruzione volontaria della gravidanza a domicilio, con erogazione direttamente nei consultori. Come ASL Roma 1 siamo stati i primi in Italia, abbiamo cominciato a marzo di quest’anno in due consultori. Anche questo è stato un modo per alleggerire gli ospedali e per far usufruire le donne di questa metodica molto meno invasiva di un aborto “tradizionale”, perché non richiede anestesia e la chirurgia.
Sta parlando della IVG Farmacologica?
Sì, la famosa RU486 che era somministrata negli ospedali o negli ambulatori ospedalieri con Day Hospital. Questo si fa ancora, però la svolta è stata la Determina della Regione Lazio, firmata nel 2020, in piena pandemia, grazie alla quale abbiamo avuto gli strumenti che ci occorrevano. Come un ecografo per consultorio, perché è importante datare la gravidanza. A questa metodica, infatti, si può accedere solo entro la settima settimana di gravidanza. Servivano poi dei ginecologi a tempo pieno per intercettare le donne “giuste”. È una metodica fantastica, però occorre individuare la donna adatta per questo tipo di procedimento, deve avere una buona conoscenza del proprio corpo e saper gestire le proprie emozioni. Una barriera che abbiamo messo è che non possiamo arruolare le donne che non parlano perfettamente l’italiano. Anche se ci avvaliamo di mediatori culturali, ci siamo resi conto che poi la donna non percepisce fino in fondo il messaggio. Quindi, è necessario che la donna dimostri di comprendere perfettamente, altrimenti meglio recarsi in ospedale o in ambulatori con il Day Hospital per poterla seguire più da vicino.
Qual è il procedimento?
Le donne vengono da noi, facciamo l’ecografia, datiamo la gravidanza e diamo la prima compressa nel consultorio. La prendono davanti a noi, mentre la seconda dopo 48 ore a casa. Abbiamo comunque i nostri ospedali di riferimento (Santo Spirito e San Filippo) che possono intervenire in caso di necessità. Forniamo dei numeri di telefono ed e-mail dedicate con cui le donne possono contattarci. È stata una conquista preziosa, soprattutto in epoca COVID.
Erano anni che questa delibera non decollava, poi c’è stata questa spinta finale. Devo dire che la Regione Lazio e la Sanità pubblica hanno reagito bene alla pandemia e sono stati di grande supporto al territorio.
In questa pandemia com’è cambiato il rapporto con le pazienti?
Nella mia esperienza consultoriale siamo stati molto vicino alle donne, non abbiamo mai chiuso . Sicuramente le donne si sono trovate ad affrontare più difficoltà, ma con gli strumenti che ormai tutti hanno a disposizione, come un telefonino, sono riuscite a entrare in sintonia con noi, si sono adattate. Tutte le visite erano garantite con appuntamento e nel rispetto delle regole anti-COVID. Certo, prima le donne potevano arrivare da noi in qualunque momento, questo ha un po’ snaturato l’identità di un consultorio come struttura sanitaria di accoglienza, però il telefono e le e-mail sono stati molto utili per rimanere in contatto. Molte cose, infatti, si possono risolvere anche a distanza, dalle ricette mediche alle prescrizioni. Questo modo di lavorare sarà il nostro futuro. Noi come ASL Roma 1 crediamo molto nella digitalizzazione in sanità, la tecnologia ci è di grande aiuto. Eseguiamo molte attività tramite il nostro portale, usiamo pochissimo il cartaceo, usiamo l’I-Pad e non stampiamo più i documenti.
Alla fine la COVID è stato uno stimolo per evolversi, certamente grave per i motivi che sappiamo, però siamo tutti cambiati e, secondo me, anche migliorati. Siamo riusciti anche ad allestire una roulotte attrezzata a studio medico e andiamo ad aiutare le ragazze più disagiate nei loro quartieri, facendo lì il vaccino per il Papilloma virus e il Pap Test. Abbiamo capito che rimanere chiusi nelle nostre strutture sanitarie non ha più senso, dobbiamo iniziare a spostarci.
So che state avviando un progetto di case di comunità. Di cosa si tratta?
Sì, stiamo anche aprendo delle case di comunità e acquisendo i primi fabbricati in periferia. Queste case saranno il primo punto sanitario per i cittadini, un luogo di accoglienza, perché la cosa più importante è orientare le persone, anche in sanità. Nascono dalla voglia di prendere in carico i pazienti nei luoghi dove vivono, soprattutto nelle periferie dove per esempio l’anziano e la persona fragile hanno più difficoltà a muoversi. Stiamo diventando un’organizzazione più capillare.
Saranno strutture in cui opererà un team multidisciplinare composto da medici, infermieri e assistenti sociali. Sono luoghi di cura intermedi, a metà tra il ricovero ospedaliero e le cure territoriali, rivolti soprattutto a pazienti con patologie croniche.
Cosa consiglierebbe oggi a chi volesse svolgere la sua professione?
Ovviamente è un percorso che mi sento assolutamente di consigliare, sarebbe strano il contrario. Anche se le difficoltà non mancano, penso che sia comunque la strada giusta. Tra l’altro in questo periodo c’è tanto bisogno di medici. Certamente è un impegno molto importante, ma non solo lo consiglio, lo promuovo nell’ambito della sanità pubblica, che ti da i mezzi e la possibilità di lavorare in equipe in un contesto in cui si va tutti dalla stessa parte. Il rapporto con il paziente poi è più libero. Puoi decidere, far tornare la paziente, approfondire la diagnosi. Le aziende sanitarie poi si stanno organizzando, almeno da noi sta accadendo, per lavorare insieme a progetti comuni e multidisciplinari. Perché è l’approccio multidisciplinare quello che poi cura veramente il paziente.
Perché diventare il medico delle donne?
Perché le donne sono ancora in una situazione di fragilità. Anche la donna che ti sembra più forte e corazzata nasconde grandi disagi nel lavoro, in famiglia. Non c’è differenza di classe sociale o possibilità economiche. Le donne hanno un carico enorme sulle spalle, familiare e professionale
Da SAPERE

La ginecologa/ Il ginecologo
- Che cosa fa la ginecologa?
Si occupa della cura, della prevenzione e della diagnosi dei disturbi e delle patologie relativi all'apparato riproduttivo femminile. È il medico che segue la donna durante tutto il periodo della gravidanza.
- In quali casi si contatta?
È consigliabile per le donne effettuare una visita ginecologica ogni anno, soprattutto dopo la maturazione sessuale, per tenere sotto controllo lo stato di salute del proprio apparato riproduttivo.
Si contatta in caso di problematiche che colpiscono l'apparato riproduttivo e in caso di gravidanza. È anche un importante riferimento per le donne con problemi di fertilità o di difficoltà nel concepimento.
- Come si prenota una visita?
È possibile rivolgersi direttamente alla ASL di appartenenza (con l'impegnativa del proprio medico di base), oppure rivolgersi ai consultori dei diversi distretti sanitari o presso strutture private.
- Come si fa a diventare ginecologa?
Iscrivendosi al corso di laurea in Medicina (Facoltà di Medicina e Chirurgia) presso la maggior parte delle università italiane. Si tratta di corsi a numero chiuso, pertanto è necessario superare un test di ammissione. Dopo i sei anni di corso, occorre iscriversi alla scuola di specializzazione in Ginecologia, (durata 5 anni) sempre superando un test d’ingresso.
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