Stare dietro a un genitore disabile, invece che andare a giocare.
Pulire casa e aiutare i fratellini a fare i compiti, perché mamma non ce la fa, ha problemi di salute mentale.
Stare dietro al fratello o la sorella con disabilità, perché i genitori da soli non riescono.
Crescere prima del tempo. Diventare adulti senza mai essere stati davvero bambini.
Questo è il mondo dei giovani caregiver. Bambini e bambine, ragazzi e ragazze che si ritrovano a svolgere compiti che non dovrebbero svolgere. Non alla loro età. Non così.
In Italia 7 ragazzi su 100 tra i 14 e i 25 anni si occupano di altri membri fragili della propria famiglia. Il carico medio di cura (burden) è di 23 ore alla settimana. Young Care Italia è una delle associazioni che rappresentano questo mondo, lo aiutano e lo sostengono. Soprattutto, fanno in modo che sia visibile, che se ne parli sempre di più.
Non a casa il motto di Young Care Italia è prendersi cura di chi si prende cura.
A fine gennaio l’associazione ha organizzato il convegno “GIOVANI E RUOLO DI CURA: TRA SCELTA E NECESSITA’. IL CASO DEGLI YOUNG CAREGIVERS IN ITALIA” ed è stata un’occasione per approfondire il tema dal punto di vista sociologico, psicologico, legale e territoriale, grazie all’intervento di esponenti accademici, professionisti esperti nell’ambito, testimoni esperti per esperienza e rappresentanti di associazioni nazionali e internazionali.

Chi sono i giovani caregiver
l termine Giovani Caregiver (Young Caregiver in Inglese) descrive tutti quei ragazzi e ragazze che per necessità o per scelta si trovano a farsi carico e prendersi cura di parenti o membri fragili della loro famiglia. Come spiegato sul sito dell’associazione, “Spesso sono “figli di” o “fratelli di” persone con problematiche psichiatriche, malattie fisiche croniche o invalidanti, persone con problemi di tossicodipendenza o alcol dipendenza. Oppure ancora, i giovani caregiver sono ragazzi di seconda generazione nati in Italia da famiglie di origine straniera, che, per ragioni linguistiche o culturali, faticano ad affrontare la burocrazia, le visite mediche, la quotidianità”.
Nella letteratura internazionale il fenomeno viene stimato con un’incidenza dal 2% all’8% e, in particolare, il report europeo “MeWe” del 2019 evidenzia che nel contesto italiano il 6,6% di adolescenti e giovani, tra 15 e 24 anni, è impegnato in lavoro di cura). Questi giovani sono impegnati spesso e con regolarità in mansioni di responsabilità che sono considerate inappropriate per la loro età.
I giovani caregiver in Italia
In Italia il fenomeno fatica ad emergere, poiché, da un lato bambini e ragazzi vengono considerati subalterni agli adulti, dall’altro i compiti di cura vengono associati prevalentemente agli adulti stessi, in particolare alle donne. L’assenza di un riconoscimento sociale, culturale e giuridico di questo ruolo di caregiver determina l’invisibilità di questo fenomeno, invisibilità che viene amplificata, soprattutto in Italia, da un welfare di tipo familistico.

Dalla ricerca condotta dalla Dottoressa Paola Limongelli, assistente sociale e ricercatrice presso Centro di ricerca Relational Social Work, Università Cattolica di Milano, realizzata su un campione di 424 intervistati tra i 13 e i 15 anni, è emerso che il 40% è coinvolto nelle responsabilità familiari in varia misura (una o più volte alla settimana) e il 19,3% ha dichiarato di svolgere in modo intenso lavoro di cura, occupandosi in particolare delle attività relative alla cura intima e del supporto emotivo di un familiare, ma anche dell’accudimento di fratelli e sorelle. La ricerca ha inoltre evidenziato come il lavoro aumenti in presenza di familiari con bisogni di assistenza e di accudimento. Le cause di questo fenomeno sono diverse. Nel nostro paese sono da ricercare soprattutto in un welfare incentrato sulla famiglia (anche i caregiver adulti portano sulle spalle tutto il peso di cura del famigliare malato o con disabilità, lo Stato fa ben poco). Oltre al fatto che i nuclei familiari, a differenza di trent’anni fa, sono più piccoli e quella rete sociale su cui un tempo si poteva contare, non esiste praticamente più. Le crisi economiche e le varie politiche di austerità hanno fatto il resto.
Le conseguenze
Tutto questo ha un peso non indifferente sui giovani caregiver. Le conseguenze piscologiche sono ansia, stress e parentificazione (il figlio che accudisce il genitore). A queste si associano le fatiche a scuola, il basso rendimento scolastico, l’abbandono scolastico, la difficoltà di avere relazioni al di fuori della famiglia. Tutte problematiche che, se non gestite in tempo, si possono acuire nella transizione all’età adulta. Ci sono poi le conseguenze emotive, come rabbia, tristezza, comportamenti a rischio, abuso di sostanze per lenire il disagio psicologico. Di tutto questo abbiamo parlato con Samia Ibrahim, ex giovane caregiver (ma come dice lei stessa, si è caregiver per sempre!) e presidente YoungCare Italia.
Samia, all’indomani del congresso sui Giovani Caregiver che avete organizzato a Milano, quali pensi siano i messaggi chiave emersi?
Lo scopo della conferenza era divulgativo, abbiamo la necessità, come ente ma anche e soprattutto come esperti per esperienze e professionisti, che sempre più persone e operatori del sociale conoscano l’esistenza del fenomeno dello young caregiving.
Esso ha delle sue caratteristiche precise e così delle conseguenze specifiche di tipo sociologico, educativo e ovviamente psicologico; per intervenire al meglio è importante essere informati e formati.
Sono certa che questo obiettivo sia stato raggiunto, credo che in qualche modo l’evento abbia smosso le coscienze dei partecipanti e li abbia fatti interrogare in merito a qualche utente con il quale avevano lavorato o stanno lavorando, che forse possa essere un giovane caregiver.
Si è caregiver per sempre, è una condizione che non si sceglie, è un lavoro che non può fare qualcun altro…o sì?
In questo senso il dibattito è molto accesso, da un lato chi crede che questo fenomeno non debba esistere, che debba essere contrastato, dall’altro chi invece ritiene che questi giovani ragazzi debbano essere supportati nello svolgimento delle loro mansioni di cura, senza necessariamente esserne sollevati del tutto. L’aspetto importante, come sempre quando si lavora con il capitale umano, è l’ascolto, dobbiamo domandare a questi ragazzi in che modo vogliono essere aiutati e agire di conseguenza. In linea più generale sarebbe opportuno che esistesse un welfare in grado di supportare almeno alcuni bisogni specifici di questa categoria di persone, penso alla possibilità di intestarsi la 104 e godere così di assenze retribuite in caso di lavoro o assenze giustificate a scuola, oppure l’esonero dal pagamento delle tasse scolastiche/universitarie, e molto altro ancora.
Credi che le istituzioni siano a conoscenza del problema?
Credo e sono consapevole del fatto che le istituzioni non siano a conoscenza di tale fenomeno, questo perché si tende ad immaginare il bambino/ragazzo come privo della capacità di autodeterminarsi e di assumere ruoli di “leadership” anche se precocemente, intesi come ruoli che implichino la presa di decisioni, anche importanti, a volte determinanti.
Ad oggi non esistono azioni di welfare ad hoc per i giovani caregiver, i quali rientrano nell’area di intervento “minori” e spesso varia al variare della collocazione geografica in cui essi sono collocati (si pensi ad esempio al lavoro svolto in Emilia Romagna), non esistono leggi nazionali a tutela dei giovani caregiver, che possano accompagnarli nella gestione di questo ruolo, esiste il buonsenso ed esistono gli interventi mirati sui minori che entrano, per una qualche motivazione, all’interno della tutela, questo ci suggerisce che si stia operando dove già c’è del disagio di una qualche natura, al quale viene sommata la condizione di young caregiver, ma chiaramente non può essere questa la modalità di intervento, non possiamo pensare di lavorare in emergenza. E’ vero che esistono, come spesso accade, delle condizioni di comorbilità, ma dobbiamo incominciare a trattare questo fenomeno in quanto tale, non in quanto conseguenza o comorbilità.
Le istituzioni cosa dovrebbero fare secondo te?
Quello che Young Care Italia vorrebbe raggiungere, quello che crede lo Stato debba fare per i giovani caregiver è molto semplice, come in tutte le “cose” della vita, partire dalle basi: rendere visibile il fenomeno, farlo conoscere agli operatori, ai social worker e non solo, ma soprattutto renderlo noto alla popolazione civile, abbiamo un grosso problema in termini di riconoscimento: i giovani caregiver stessi non sanno di essere tali, soprattutto se l’insorgenza, chiamiamola così, del fenomeno cade in giovanissima età. Abbiamo bisogno che questi ragazzi sappiano che la loro condizione di vita può essere alleggerita, accompagnata, e se lo desiderano possono addirittura essere sollevati dalla stessa, non è obbligatorio prendersi cura, questo è il nodo focale, noi di Young Care Italia vogliamo incentivare una “cura consapevole” vogliamo che i giovani caregiver possano scegliere come e in che misura prendersi cura, senza essere sopraffatti dall’obbligo, dalla necessità e dal senso di colpa, questo perché spesso sono abbandonati, non vedono alternativa alla loro persona, si sentono oberati e non riescono a vedere una via d’uscita. Dobbiamo agevolare questi ragazzi all’accesso ai servizi per le cure dei disabili, aiutarli nel loro percorso di crescita personale in affiancamento al ruolo di giovani caregiver che si trovano a incarnare, questo dovrebbe fare lo stato, il welfare. Basterebbe questo per incominciare!
Tu sei una giovane caregiver: puoi raccontarci brevemente la tua esperienza, ciò che ti ha dato e ti ha tolto e che tipo di aiuto avresti voluto?
Io sono stata una giovane cargiver, sono stata, perché ormai non rientro più nell’età anagrafica che mi rende young, ma non ho smesso di essere una caregiver, questo perché alcune patologie che conducono alla disabilità, conducono ad una disabilità permanente, per la quale non vi sono cure e per la quale vi sarà sempre costantemente bisogno di un caregiver.
Ho dovuto, pertanto, lavorare sull’accettazione di questa condizione che sarebbe stata permanente per me e per la persona di cui mi sono e mi prendo tutt’ora cura. È un lavoro importante sotto il profilo psicologico, perché si deve elaborare un lutto senza che avvenga una perdita materiale, concreta, si piange un morto il cui cadavere non c’è, e non ci sarà. Questo per un bambino o per un giovane adulto può essere fortemente destabilizzante, può avere delle ripercussioni importanti sulla propria crescita, sul proprio sviluppo emotivo e affettivo. La mia esperienza è nell’ambito delle patologie che soffrono dello stigma peggiore, perché la disabilità che ho affrontato è una disabilità psichica, rimasta silente per molto tempo, che mi ha regalato per qualche anno una mamma sana, ma che poi, piano piano se l’è portata via, per riconsegnarmela svariate volte nel corso della mia vita, sempre in modo diverso e mai uguale a come l’avevo vissuta per la prima volta, la prima volta in cui ho incontrato mia madre. Questa esperienza di vita mi ha regalato numerose competenze, ma l’ho capito dopo, ci sono arrivata grazie ad un importante lavoro su me stessa, ho saputo valorizzare un vissuto di cui mi sono sempre vergognata, che mi ha sempre fatto sentire una “sfigata” rispetto ai miei coetanei, i miei compagni di classe ad esempio, si sa un adolescente fa fatica a misurarsi con i propri simili, perché spesso da questo confronto ne esce perdente, a maggior ragione se si parte con un handicap, in tutti i sensi. Ho perso l’infanzia, questa è l’unica perdita che rimpiango e di cui mi sono accorta tardi, non sono mai stata una bambina nel verso senso della parola, sempre molto responsabile, attenta, matura come dicevano gli altri, gli adulti.
Cosa consiglieresti a un giovane caregiver?
Da ex young caregiver potrei consigliare di chiedere aiuto, l’unica cosa che mi sento di dire è questa, poi le storie dei giovani caregiver sono tutte così diverse che è sempre molto complicato formulare consigli generici, il più importante è certamente porsi delle domande, sempre, sulla propria condizione di vita, cercare sempre di mettere in discussione ciò che ci accade, senza prenderlo come un destino che non può mutare, stalattitico, marmoreo.
Queste domande possono condurre alla ricerca di risposte e le risposte che si possono trovare possono aprire gli occhi e portare l’individuo finalmente a riconoscersi in una data condizione e chiedere aiuto.
Dobbiamo sempre problematizzare tutto ciò che ci accade, come forma mentis, non accettare a testa bassa ma chiedersi, perché è così … può essere diverso ?
Se siete giovani caregiver o conoscete giovani caregiver che hanno biosgnbo si supporto potete contattare l’associazione: https://youngcareitalia.org/ – info@youngcareitalia.org