Erika ha solo 15 anni, sua madre ha una malattia psichiatrica, suo fratello vive chiuso in camera sua. Il padre fa quello che può e tocca a lei aiutarlo. Per un anno non va a scuola, perché bullizzata e perché non riesce a stare al passo. Erika è una giovane caregiver.
Di lei e di storie di giovani caregiver ne parliamo con Licia Boccaletti, Presidente della Cooperativa “Anziani e non solo”.
I giovani caregiver sono adolescenti o ragazzi che, nonostante la giovane età, si trovano ad assistere o a prendersi cura di un familiare che soffre, ad esempio, di una malattia fisica o psichica, con una disabilità o una dipendenza.
Che sia un genitore, un fratello più piccolo o un amico colpito da una malattia cronica o da una disabilità, i giovani caregiver si prendono sulle spalle una responsabilità tutta adulta.
Prendersi cura di qualcuno non è facile, condiziona l’equilibrio psico-fisico e il benessere personale. E se questo è vero a qualsiasi età, per un giovane l’impatto è forte, anche con ripercussioni nella vita scolastica o universitaria, professionale e sociale.
Secondo l’Istat in Italia i giovani caregiver sono circa il 7% dei ragazzi tra i 15 e i 24 anni, cioè circa 400mila ragazzi. Eppure se ne parla poco, sono ancora, di fatto, degli invisibili.
Quanti sono i giovani caregiver?

Licia Boccaletti
È difficile dare una cifra e vale anche per gli adulti. Molto dipende anche dalla definizione che viene data. Chi è il caregiver? È un familiare? Una persona che ne assiste un’altra?
Nei giovani conta molto quanto ci si auto-riconosce come caregiver. Non tutti i ragazzi, infatti, si riconoscono come tali. Perché se si è cresciuti in una situazione di questo tipo, è la normalità, non è una condizione acquisita, non se ne ha piena consapevolezza, come può capitare a un adulto che, ad esempio, si trova ad accudire a un genitore con demenza senile.
Questo aspetto, quindi, incide molto sulla misurazione del fenomeno. Qualche dato però iniziamo ad averlo, come quello Istat. Anche se è sicuramente un dato sottostimato perché cattura solo una parte di questo fenomeno. Si considerano, infatti, soltanto i giovani che si prendono cura di un adulto, ma pensiamo, ad esempio, ai fratellini che hanno bisogno di aiuto o ai minori di 15 anni. Comunque, seppur parziale, è un dato. Un recente studio al quale abbiamo collaborato, anche se su un campione di soli 800 studenti, la percentuale è stata più elevata, circa il 23%. E quando collaboriamo con le scuole superiori, almeno un giovane caregiver per classe lo troviamo.
Tutto questo per dire che dare un numero non è possibile, perché è ancora un fenomeno troppo sfuggente. Però esiste e ha una dimensione significativa.
Quali sono gli ostacoli e le sfide che deve affrontare un giovane caregiver?
Quando parliamo di giovani caregiver rientrano in questa dimensione situazioni molto diverse tra loro. Ci sono situazioni estreme, ma anche più rare, in cui l’adolescente è il caregiver primario, perché magari non ci sono altre figure adulte che si assumono o possono assumersi la responsabilità di cura. Sono casi insoliti in cui qualcosa non va nel nucleo familiare o nella rete di assistenza territoriale. Molto più spesso il ragazzo è un caregiver secondario, quindi aiuta, anche in maniera significativa, il caregiver primario (di solito un genitore o un altro adulto).
Ci sono poi delle situazioni in cui non si chiede molto al giovane in termini di assistenza materiale, ma c’è un coinvolgimento molto importante dal punto di vista emotivo.
Penso, ad esempio, al genitore con una patologia psichiatrica. Non si richiede un’assistenza materiale come pulirlo, vestirlo o nutrirlo ma emotivamente questo rende difficile la relazione.
Chi presta invece un’assistenza importante lo possiamo assimilare a un caregiver adulto. E anche se a 18 anni si è considerati maggiorenni, si è sempre ragazzi, con il problema di conciliare il tempo di cura con quello dello studio, quindi a doversi assentare dalla scuola o dall’università, con poco tempo per gli amici, per lo sport, per la socialità. Queste sono già conseguenze importanti nella vita di un giovane. Qualcuno accusa anche problemi fisici, come per gli adulti. Magari dorme poco o ha dolori alla schiena perché deve mobilizzare il familiare disabile o non autosufficiente.
Poi ci sono problematiche legate all’età evolutiva, perché questi giovani crescono in modo diverso dai loro coetanei. A volte possono “adultizzarsi”, assumere cioè degli atteggiamenti tipici di un adulto, oppure sviluppare comportamenti oppositivi. La loro fase di crescita coincide sfortunatamente con un impegno di cura spesso gravoso per le loro giovani spalle.
Vorrei però sottolineare che ci sono invece ragazzi che riescono a vivere questa esperienza di cura in maniera resiliente e positiva, apprendendo ciò che di buono può esserci in questa esperienza, come maggiori abilità relazioni, empatia, competenze pratico-operative, maggiore senso di responsabilità. Alcuni riescono ad avere un adattamento positivo. Dipende da tanti fattori, dalla rete sociale e familiare, dal sostegno che ricevono.
Esistono forme di supporto per questi ragazzi?
Qualche forma di supporto esiste, anche grazie al lavoro di tante associazioni e di tanti volontari che iniziano ad affacciarsi a questo mondo. Si tratta però di iniziative a macchia di leopardo, non c’è un aiuto strutturato a livello nazionale.
Si tratta prevalentemente di iniziative del mondo non-profit, associazioni che magari riescono ad ottenere finanziamenti per specifici progetti di supporto. Ci sono poi delle scuole o alcune università che in autonomia hanno attivato dei percorsi speciali per offrire una maggiore elasticità nella frequenza e nella gestione dello studio, ad esempio. Ma sono tutte iniziative non uniformi sul territorio nazionale e che dipendono da finanziamenti che a volte ci sono, altre no. In questo modo non c’è la possibilità di offrire un supporto continuativo.
È pur vero che inizia a esserci un’attenzione su questo tema, ma siamo ancora agli inizi del percorso.
C’è stato il caso, riportato anche dalla stampa, dell’università di Modena, in cui una giovane caregiver e studentessa di ingegneria, Erika, ha portato avanti una battaglia per essere riconosciuta alla pari degli studenti lavoratori che godono di alcuni benefici, anche in termini di tempistiche per gli esami. Era una cosa non prevista, perché quello di caregiver non è riconosciuto come un lavoro. Grazie al suo impegno però l’università di Modena ha parificato il caregiver allo studente lavoratore. Una piccola ma importante vittoria.
Si tratta, tuttavia, di episodi locali, legati al territorio. Basta spostarsi di qualche km e non c’è nulla.
Avete dei progetti specifici per i giovani caregiver?
Noi lavoriamo su vari fronti. Organizziamo degli interventi nelle classi delle scuole medie e superiori rivolti gli studenti per sensibilizzare i ragazzi a queste tematiche e per cercare di scongiurare i fenomeni di bullismo verso i giovani caregiver. È importante che i compagni di classe comprendano la situazione. Parlandone poi, molto spesso i ragazzi stessi riconoscono di trovarsi in questa situazione, di essere giovani caregiver, ad esempio per la presenza in famiglia di un familiare con disabilità.
Poi ci sono interventi psico-educativi di gruppo rivolti solo ai giovani caregiver, per farli incontrare e conoscere tra loro, per fargli capire che non sono i soli a vivere questa situazione. Poi cerchiamo di lavorare con i professionisti che possono aiutarli come gli insegnanti, medici, psicologi o educatori.
Un caso particolare?
Per me sono tutti casi speciali, visto quello che affrontano nella loro giovane età. Ad esempio, crescere con un fratello disabile è un’esperienza di vita molto particolare, anche se crescendo molti ragazzi ne traggono delle cose buone.
Quando invece la persona da accudire è il genitore, è tutto più complicato, perché viene meno quella figura di riferimento che nella fase di crescita è fondamentale. La relazione è fortemente condizionata dalla patologia (pensiamo alle malattie psichiatriche), poi c’è anche la vergogna a raccontarlo agli altri, agli amici, non si può invitare nessuno in casa, si tende a ritirarsi dalla vita sociale. Sono ragazzi che a volte abbandonano la scuola o fanno tante assenze e per questo perdono l’anno, perché magari la scuola non è a conoscenza di questa situazione.
Mi ricordo di una ragazzina di 15 anni con una mamma che soffriva di una patologia psichiatrica. Il fratello viveva chiuso nella sua stanza, era un hikikomori. In pratica erano lei e il papà a dover mandare tutto avanti. Era anche vittima di bullismo a scuola e aveva deciso di ritirarsi, restando a casa per più di un anno. È stata per fortuna intercettata dalla psichiatra della mamma che ha capito che questa giovane aveva bisogno di aiuto. L’abbiamo inserita in un gruppo di sostegno e l’abbiamo vista pian piano trasformarsi, rifiorire direi, anche nell’aspetto. Ha cambiato scuola e poi ha trovato un lavoro come parrucchiera. Questa è una storia a lieto fine, perché la ragazza è riuscita a rimettersi in carreggiata e ha iniziato il suo percorso di vita, pur nella difficoltà. Il fratello purtroppo non siamo riusciti ad agganciarlo, nel suo caso la situazione non è cambiata, vive ancora chiuso nella sua stanza.
Come si possono sensibilizzare le istituzioni?
Noi ci proviamo, ma molto dipende dalle Regioni, dalle singole realtà territoriali. L’Emilia Romagna, ad esempio, è stata la prima Regione a fare una legge sul caregiver familiare adulto, ciò vuol dire che c’è attenzione verso questi temi, qualcosa si muove, ma parliamo solo di questo territorio.
Il fenomeno dei giovani caregiver esiste da sempre, ma la sensibilizzazione è relativamente nuova. Non ci sono servizi strutturati, occorre infilarsi nelle pieghe di ciò che esiste e coinvolgere i vari servizi come la scuola, l’università, i servizi sociali, sanitari o quelli sulla salute mentale. Perché capita che i ragazzi stessi sviluppino disagi psicologici da attenzionare, quindi è complicato mettere insieme tutti questi soggetti.
Le cose nel tempo sono migliorate, questo va detto. Purtroppo, come accade spesso in Italia, non c’è uniformità: oltre all’Emilia Romagna, dove noi operiamo direttamente, ci sono iniziative in Lombardia o in Puglia ma sono spot.
Non posso dire quindi che manca un’attenzione da parte delle istituzioni ma è chiaro che si tratta di avviare un percorso complesso, perché complesso, sotto tanti aspetti, è l’universo caregiver.
E noi ringraziamo tutte le persone che lavorano nel no-profit e tutti i volontari che grazie al loro impegno e alla loro dedizione cercano di aiutare, di fare qualcosa per il bene di molti.
A volte basta davvero poco per cambiare il corso di una vita.