Il diabete è una malattia di cui si parla e si scrive molto. Di molti personaggi celebri, anche del passato, si sa che erano o sono diabetici: Bettino Craxi, Michail Gorbaciov, Ernest Hemingway, Halle Berry, Elvis Presley…
Di diabete ha parlato il cinema, in film di grande successo come “Fiori d’acciaio” e “Panic room”.
Mentre il diabete di tipo 2 esordisce in età adulta ed è correlato agli stili di vita, il diabete 1 si manifesta durante l’infanzia o l’adolescenza. Si tratta di una malattia autoimmune nella quale il sistema immunitario, per errore, attacca e distrugge le cellule del pancreas che producono l’insulina. Il risultato è che il glucosio non può essere trasportato all’interno delle cellule, che lo usano come fonte di energia per compiere le reazioni metaboliche, si accumula nel sangue e finisce con il depositarsi nei tessuti di un gran numero di sistemi e apparati, danneggiandoli. Per prevenire lesioni irreversibili e permettere un normale metabolismo cellulare, l’insulina deve essere somministrata dall’esterno.
È una malattia sulla quale l’interesse è alto e che coinvolge una fetta relativamente importante della popolazione. Proprio per questo, l’informazione rischia di fare di ogni erba un fascio, di accomunare tutti i pazienti in un’unica condizione, quando invece ognuno di loro lo vede da un proprio punto di osservazione e da lì lo descrive.
La storia di Giulia

Giulia da piccola
Giulia Campostrini è una bella ragazza toscana di 26 anni che convive con il diabete di tipo 1 da 16: “L’ho scoperto in quarta elementare. Anzi, se ne è accorta mamma”.
Benché fosse estate e durante la stagione calda ci si aspetta che i bambini bevano di più, quell’anno lei sembrava esagerare con l’acqua. In più, quella progressiva perdita di peso, ingiustificabile in una ragazzina che si alimentava normalmente…
Come avviene sempre in questi casi, la sua mamma si è resa conto che qualcosa non andava e si è rivolta alla pediatra, che, tramite l’esecuzione degli esami previsti, ha formulato la diagnosi di diabete.
Poi il ricovero a Firenze, all’Ospedale Meyer, per sottoporre la piccola Giulia a tutti gli approfondimenti del caso: una degenza che ha segnato l’inizio della sua convivenza con la malattia ma anche, in un certo senso, con la comunità dei pazienti diabetici pediatrici, un gruppo affiatato che trova nei medici del Meyer un supporto che va al di là dell’assistenza sanitaria. “Entri a fare parte di questa grande famiglia – racconta Giulia – che è difficile lasciare una volta compiuti i 18 anni, la soglia di età oltre la quale si è considerati adulti e si deve rinunciare al pediatra”.
Da piccola non sembra un problema
La prospettiva di Giulia in quella prima fase di diabete è stata un po’ passiva: qualcosa stava succedendo intorno a lei, ma solo i suoi genitori sapevano chiaramente di cosa si trattasse. Giulia ricorda i primi approcci con l’insulina: il papà che cercava di praticare l’iniezione e la mamma che la abbracciava, rassicurandola. I precoci tentativi di gestione di un disturbo destinato ad entrare nella vita del paziente, ma anche della sua famiglia, dei suoi amici, dei colleghi di lavoro.
“Da lì è partito tutto” mi racconta Giulia. “Ma io ero tranquilla, nonostante ci fosse stato questo grandissimo cambiamento. Ricordo che frequentavo una scuola elementare con orario prolungato e il mio babbo mi raggiungeva a scuola prima di pranzo, per misurarmi la glicemia e farmi l’insulina. I miei compagni di classe non mi hanno mai lasciata sola: ogni giorno due o tre di loro mi accompagnavano per questa operazione, ogni volta contendendosi la presenza -Vengo io, oggi tocca a me!”.
Diventa problematico nell’adolescenza

Giulia adolescente
Ma, se per una bambina è relativamente semplice adattarsi a questa condizione, per un’adolescente le cose possono essere un po’ più complesse. Arrivata l’età in cui condividere questo tipo di intimità è difficile, per lei sono sorti i primi, veri ostacoli.
“È stato abbastanza pesante, perché entri in una realtà diversa: vedi i tuoi coetanei che apparentemente sono come te, perché fanno le stesse cose, ma tu sai che non è così. Ti senti che gli altri si formano un’idea su di te in base alla tua malattia e questo ti fa sentire diversa”.
Oggi, a distanza di anni, Giulia è in grado di guardare al passato con maggiore consapevolezza: “Adesso so che non sono gli altri a farti sentire diversa, ma sei tu a sentirti tale. L’iniezione di insulina deve essere fatta proprio prima di sedersi a tavola, quando si è tutti insieme. E inevitabilmente rompe la convivialità, l’atmosfera di condivisione: è quello il momento in cui percepisci la differenza fra te e gli altri. Questo aspetto ha influito moltissimo, nel mio caso, sulla maniera di affrontare la malattia. Le persone che conoscevo da poco mi chiedevano perché andassi in bagno sempre prima del pasto, perché a volte dovessi aspettare prima di mangiare. E io non mi sentivo libera, temevo che si formassero un giudizio su di me basandosi sulla malattia”.
È difficile accettare l’idea di essere malata
Chiedo a Giulia se ha mai chiesto un supporto psicologico.
“No, non ho mai affrontato un percorso di questo tipo in passato: lo sto vivendo ora, perché prima o poi i nodi vengono al pettine. Mi riferisco ai dubbi, alle insicurezze…”.
Qui la sua voce si fa meno ferma: “Non ho mai rifiutato l’idea della malattia, anche se penso che sia difficile, se non impossibile, accettare di essere malati. Ma ho avuto molte volte paura di essere identificata con la mia malattia, etichettata come “quella malata”. Però una volta una dottoressa del Mayer mi disse che il diabete non deve essere visto come una malattia, ma come un modo di essere e questa sua frase mi mostrò un’altra prospettiva. Mi disse che il mio pancreas aveva un problema, che io dovevo assumere l’insulina, così come chi ha un deficit visivo deve portare gli occhiali”.
Giulia sospira: “Andrà accettato come compagno di vita, per tutta la vita e questo non è semplice. Lo sa che ho conosciuto un ragazzo, al Meyer, che è tutto l’opposto rispetto a me? Lui non si pone alcun problema a parlarne con le persone, a raccontare della sua malattia, mentre io… Per anni ho evitato di fare i conti con lui, ma mi sono fatta del male perché è stato come negare una parte di me: il diabete è sempre stata la mia parte fragile”.
E vicino a Giulia, nel suo intorno più stretto, cosa accadeva intanto?
“I miei genitori sono stati eccezionali: se non ci fossero stati loro, non avrei raggiunto questo grado di maturità nel comprendere e gestire la malattia. Sono molto contenta di avere il loro supporto. Ora che sono adulta, capisco che anche per loro è stata una bella batosta: non è un mal di testa. Ma loro hanno saputo reagire e hanno trascinato anche me, spingendomi a stare attenta e a non lasciarmi andare nel morale”.
Nel corso della nostra conversazione il termine “diabete” fa capolino tout court solo in pochissime occasioni e quasi sempre pronunciato da me. Giulia evita il più possibile di citarlo e ne parla riferendosi ad un soggetto sottinteso.
Di diabete parla con maggiore facilità se riguarda altri. Ricorda con ironia che il gatto che ha avuto in passato aveva la stessa malattia e che, forse per affinità elettiva, riconosceva i momenti in cui lei aveva bisogno di una coccola e non gliela faceva mancare. Una capacità che sembra avere ereditato la gattina di oggi: pur silenziosa e felpata, Ginger fa sentire con forza la sua presenza.
Cosa diresti a un ragazzo più giovane che riceve una diagnosi di diabete?

Giulia oggi
“Non è semplice: il mio approccio è stato ad alti e bassi, ha alternato momenti di accettazione a momenti di rifiuto. La cosa che mi sento di dire è che non esiste una maniera corretta di affrontare la malattia, ognuno ha la sua, ma anche che il supporto psicologico può fare la differenza, per ingaggiare un circolo virtuoso e guadagnare forza”.
Alla domanda “Come definiresti il diabete?” risponde perentoria: “Una rottura di scatole” e giù una sonora risata.
È il momento della grinta: “Ma ti dà anche tanta forza: se fai le stesse cose degli altri sapendo di avere un problema in più sei di certo più forte! Io ho giocato 12 anni a pallavolo malgrado il diabete. Non mi sono mai preclusa niente: andavo a ballare come i miei coetanei, facevo le stesse cose di tutti i ragazzi della mia età. Da questo punto di vista, non si tratta di una malattia che impatta sul fisico, della quale si è costretti a portare i segni e questo aiuta”.
Come va con il microinfusore? “Non lo uso, preferisco le pennette. Ma tengo applicato il “bottoncino” per il monitoraggio della glicemia. Anche qui, ho avuto qualche intoppo… Quando l’ho applicato la prima volta ho scoperto di essere allergica alle sostanze adesive che lo tenevano incollato alla pelle. Ma poi, fortunatamente, ho trovato un’altra colla, che applico prima del sensore e che non mi dà alcun problema”.
La mia conversazione con Giulia termina qui solo formalmente. Virtualmente prosegue nell’interazione con i lettori, chi diabetico chi no, che leggeranno del diabete dalla sua prospettiva.