I diritti alla vita indipendente e alla sessualità dovrebbero essere garantiti a tutte le persone adulte, ma non è così. Le persone con disabilità, soprattutto cognitiva, sono spesso considerate eterni bambini e angeli asessuati, incapaci di gestire la propria vita in autonomia, così come di vivere responsabilmente la loro sessualità. Pregiudizi del genere possono ostacolare il passaggio alla vita adulta. Eppure in Italia diverse realtà lavorano per promuovere l’autodeterminazione delle persone con disabilità cognitiva, come i progetti di promozione della vita indipendente della Fondazione Down Friuli Venezia Giulia a Pordenone e della Fondazione Italiana Verso il Futuro Onlus a Roma.
Il diritto all’autodeterminazione
L’articolo 19 della Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità sancisce il loro diritto a “scegliere, su base di uguaglianza con gli altri, il proprio luogo di residenza e dove e con chi vivere”. Ciò significa riconoscere a tutte le persone con disabilità il diritto all’autodeterminazione, che comprende anche il diritto a una vita indipendente, all’affettività e alla sessualità, dimensioni correlate tra loro e proprie di un’identità adulta.
Ma in Italia alle persone con disabilità cognitiva questo diritto non è ancora pienamente riconosciuto.
Secondo la ricerca-azione sulla condizione delle persone con sindrome di down, promossa dall’Associazione Italiana Persone con sindrome di Down (AIPD) in collaborazione con il Censis, il 94,3% del campione di giovani (a partire dai 15 anni) e adulti vive in famiglia. L’1,5% vive in una struttura residenziale ma la percentuale cresce con l’aumentare dell’età, raggiungendo il 5% per gli over 44. Il 23,3% frequenta un centro diurno, il 28% lavora, mentre il 27,2% non svolge alcuna attività.
Rispetto alla dimensione affettiva, il 31,1% ha una relazione sentimentale, quota che sale al 38% tra i 25 e i 44 anni e al 31,8% nel caso di un livello di disabilità percepito come lieve. Solo il 3,2% ha una relazione sessuale, percentuale che si alza al 4,3% nella fascia d’età tra i 25 e i 44 anni. Soltanto il 21% dei caregiver sa cos’è un progetto di vita indipendente, il 29,5% ne ha sentito parlare e la metà non lo conosce.
Eppure in Italia esistono realtà impegnate nella promozione della vita indipendente e del diritto all’affettività e sessualità delle persone con disabilità cognitiva.
La storia di Spartaco ed Elena

“Io e Elena ci siamo conosciuti quando vivevamo in famiglia”. Spartaco Zugno, 48 anni, operaio magazziniere, abita a Pordenone ed è sposato dallo scorso settembre con Elena Marchi, quasi 50 anni, collaboratrice scolastica in una scuola media.
La loro relazione dura da poco più di vent’anni, come del resto la loro convivenza.
“Ci siamo messi insieme al telefono. Mi ha chiamata lui e mi ha chiesto:”Vuoi stare con me?”. Gli ho messo giù e in meno di cinque minuti l’ho richiamato e gli ho detto di sì subito.”
Spartaco e Elena vivono insieme a un’altra coppia in uno degli appartamenti gestiti dalla Fondazione Down Friuli Venezia Giulia, nell’ambito del progetto Casa al Sole, nato nel 2002 in collaborazione con l’Azienda Sanitaria, per promuovere percorsi di vita indipendente rivolti ad adulti con disabilità cognitiva. Circa la metà dei destinatari dei loro interventi sono persone con sindrome di Down.
La casa del Sole

“Il progetto è strutturato in due macrofasi.”- spiega Cinzia Paolin, coordinatrice del progetto – “la prima è quella formativa, dura tre anni e si svolge all’interno dell’appartamento Casa al Sole. In questa fase si lavora molto intensamente su diverse aree: la cura della persona, la salute, l’estetica, la gestione dell’abbigliamento, l’alimentazione, la cura dell’ambiente domestico. Le abilità sociali, come la capacità di gestire il proprio tempo, il denaro, il cellulare, o come la comunicazione, l’uso della tecnologia”. Continua: ”Fondamentale è il lavoro nell’area affettivo-relazionale, che comprende la conoscenza delle proprie emozioni, la gestione delle relazioni familiari, quelle con gli amici, o quelle formali, ad esempio il rapporto con i medici, negli uffici pubblici, con i vicini di casa, la consapevolezza dei propri comportamenti e delle loro conseguenze. Serve imparare ad avere un ruolo a seconda del contesto e delle sue regole, capire cosa gli altri si aspettano da me. Infine, l’area affettivo sessuale, quindi la relazione con il fidanzato o fidanzata. Il nostro obiettivo è aiutare le persone a diventare adulte, avere una identità più forte e realizzare al meglio la propria vita. Al termine di questo periodo formativo, le persone scelgono con chi vivere e si vengono a formare dei nuclei abitativi, che chiamiamo “case satelliti”.
L’appartamento “Casa al Sole”, messo a disposizione dall’azienda sanitaria, ospita quattro persone, selezionate dall’azienda tramite una lista di attesa, mentre le sei case “satelliti” sono abitazioni private. L’azienda sanitaria copre anche il costo degli educatori che supportano gli inquilini nel loro percorso di vita indipendente.
Attualmente i destinatari del progetto sono 24, di cui quattro coppie. L’età media è circa 35-40 anni, ma il range varia dai 25 ai 58 anni.
Silvia D’Andrea e Paolo Cucchini, rispettivamente di 31 e 36 anni, lavorano entrambi come collaboratori scolastici. Si sono conosciuti nel 2016 a Casa al Sole e fidanzati nel 2019. Anche loro, come Elena e Spartaco, ora vivono in uno degli appartamenti satellite insieme ad un’altra coppia.
“All’inizio litigavamo e non si andava d’accordo.” – ricorda Silvia – “Ci sono stati alti e bassi, non solo di coppia ma anche di gruppo”. “Gli educatori stanno aiutando noi e gli altri due, quando ci sono difficoltà. Io e Silvia, invece andiamo più d’accordo”- aggiunge Paolo.
L’educazione alla sessualità per le persone con sindrome di Down
L’intervento educativo si concentra sia sugli aspetti relazionali e comunicativi, sia su quelli legati alla sfera affettiva e sessuale. “Per la sessualità, io e Elena ci si trova in coppia da soli in camera…abbiamo i letti matrimoniali.” – racconta Spartaco -”All’inizio ci si metteva in intimità da soli con la porta chiusa e ci siamo conosciuti, scoprendo come reagiva il nostro corpo”.
Elena aggiunge: “Per risolvere i nostri problemi, io e lui ci parliamo. E poi gli educatori, ogni volta che abbiamo un problema, sia personale che di coppia, ci aiutano tanto”.
Nel progetto Casa al Sole i percorsi di educazione alla sessualità sono rivolti a tutti gli utenti, anche a chi è single. Si lavora individualmente, in coppia o in gruppo.

“Nel rapporto di coppia e nel rapporto con l’altro è importante essere consapevoli di quello che si desidera e di quello che piace e saperlo dire all’altro, o viceversa saper dire di no – specifica Paolin -cerchiamo di trattare l’area affettivo sessuale entrando in tutte le sue dimensioni: culturale, cioè comprendere le differenze di genere, il proprio ruolo sessuale e come lo si esprime; corporea, quindi lo schema corporeo e la funzione degli organi sessuali, usando una terminologia adeguata; la conoscenza dei cambiamenti corporei, nelle varie fasi della vita. La dimensione ludica e riproduttiva, quindi conoscere le fasi della risposta sessuale, la masturbazione, il rapporto sessuale, la contraccezione, la prevenzione delle malattie”.
“L’educazione alla sessualità rivolta a un adulto con disabilità intellettiva non può essere la stessa che viene proposta a un bambino o a una bambina in quanto deve intercettare i problemi, i bisogni, i desideri che contraddistinguono la vita adulta.” – spiega Angelo Lascioli, professore ordinario di pedagogia speciale presso l’Università degli Studi di Verona – “Il lavoro educativo delle associazioni che seguono le persone adulte con disabilità intellettiva va in tal senso orientato nella direzione dello sviluppo, non soltanto delle autonomie, ma anche dei progetti di autodeterminazione, di vita indipendente e di costruzione e sperimentazione di percorsi di vita di coppia. Si tratta di dimensioni dello sviluppo che appartengono alla vita adulta per eccellenza, e che consentono a queste persone di esercitare quei diritti di adultità e di cittadinanza attiva, che altrimenti non potrebbero essere raggiunti. Infatti le persone con disabilità intellettiva che non sono supportate in questi processi, raramente riescono da sole a raggiungere questi traguardi”.
Un’altra parte consistente del lavoro educativo mira a sviluppare competenze di gestione autonoma dell’appartamento e della quotidianità. Le coppie si organizzano a turno per le pulizie e la spesa e versano un contributo per le utenze alla Fondazione, che materialmente effettua i pagamenti.
Il supporto che gli educatori offrono a queste due coppie e ai loro coinquilini è relativamente esiguo – nell’ordine di 8-9 ore settimanali – ma in generale la presenza educativa viene stabilita in base alle necessità delle persone.
Nella Casa al Sole gli educatori sono presenti h24, per avere la possibilità di osservare le competenze e il livello di autonomia delle persone e formulare il primo PEI, il Progetto Educativo Individualizzato in cui vengono stabiliti gli obiettivi da raggiungere per ogni persona nelle varie aree. Nelle “case satelliti”, man mano che vengono conseguiti gli obiettivi, la presenza educativa si riduce.
Gli altri progetti in Italia
Progetti simili a questo sono diffusi in tutta Italia e, pur condividendo gli stessi obiettivi, ognuno ha le sue peculiarità.
Fondazione Italiana Verso il Futuro Onlus, nata a Roma nel 1997, gestisce nove case famiglia per adulti con disabilità cognitiva, di cui sei sono strutture residenziali permanenti, dove le persone vivono stabilmente, mentre tre sono dedicate ai percorsi di avvicinamento e training alla vita indipendente. Alcune di queste residenze sono in convenzione con il comune di Roma e gli inquilini sono selezionati mediante graduatoria pubblica, le altre sono state finanziate dalla fase di stabilizzazione della legge 112/2016, cosiddetta “Dopo di noi”.
“I percorsi di avvicinamento, le cosiddette “palestre”, iniziano in genere con un weekend al mese di convivenza in un gruppo di cinque persone. Dopo circa un anno lo stesso gruppo può incrementare il periodo di permanenza nella struttura e trascorrerci una settimana al mese.” – spiega Stefania Mazotti, psicologa e responsabile progetti della fondazione – “Successivamente, quando il gruppo si va consolidando e le autonomie aumentano, si può passare ad una convivenza di due settimane al mese, in cui si riproduce la loro vita quotidiana: il lavoro per chi lavora, le attività occupazionali o sportive, ecc. Poi si arriva alla fase di stabilizzazione, cioé al fatto che nella struttura ci vivano permanentemente e stabilmente ”.
I partecipanti ai training sono circa una sessantina e la loro età è compresa tra i 24 e i 58 anni. Non tutti iniziano poi a vivere nelle strutture permanenti, che ospitano complessivamente trenta persone, cinque in ogni abitazione, di età compresa tra i 42 e i 74 anni.
Valeria, 38 anni, frequenta un centro diurno e dal 2016 convive con il fidanzato, Sirio, 46 anni, collaboratore scolastico presso la British Council Roma, a Casa Futura, una delle sei case famiglia permanenti della Fondazione. Con loro abita un’altra coppia – Salvatore, 46 anni, utente di un centro diurno, e la sua compagna, Caterina, 47 anni, che lavora come cameriera presso McDonald’s – e una persona single.
Prima di iniziare la convivenza, le due coppie hanno partecipato alla “palestra”, il percorso di avvicinamento.
“Abbiamo imparato a convivere con gli altri” – racconta Valeria – “e a apparecchiare, sparecchiare, cucinare, spazzare” e Sirio aggiunge:”Abbiamo aumentato la nostra autonomia: facevamo la spesa e trascorrevamo i weekend insieme”.
In quel periodo, oltre a lavorare sulle autonomie domestiche, hanno partecipato ad un percorso di sostegno all’affettività e alla sessualità, strutturato in incontri individuali, di coppia e di gruppo. Ora su questo aspetto vengono seguiti al bisogno.
L’equipe di lavoro che supporta gli inquilini delle case famiglia è composta da vari ruoli e può avere sia compiti educativi che assistenziali, a seconda delle esigenze.
“Ci sono educatori professionali, operatori socio-sanitari e, solo in alcuni progetti residenziali, anche l’assistente familiare – il cosiddetto badante.” – spiega Mazotti – “l’organizzazione è diversa a seconda del gruppo: le residenze in cui vivono le persone più anziane richiedono fino a nove operatori, tra educatori e operatori socio-sanitari. Ci sono invece strutture più “leggere”, più autonome, dove sono inserite persone più giovani. Lì il ruolo dell’assistente familiare l’abbiamo previsto soprattutto di notte, rispetto alla possibilità di un’emergenza, ma richiede esclusivamente un intervento di vigilanza.”.
La presenza degli operatori è h24, con delle differenze rispetto al tipo di intervento, che varia a seconda della tipologia degli utenti e delle loro esigenze.
Supportare progetti come questi implica rivoluzionare il modo di pensare alla presa in carico delle persone con disabilità, specialmente cognitiva, che non può più avvenire in un’ottica di protezione sociale e controllo delle stesse, ma dev’essere finalizzata alla reale promozione della loro autodeterminazione.
Nel 2021 l’Italia ha approvato la Legge Delega in materia di disabilità, con l’obiettivo di dare effettiva concretezza ai principi espressi nella Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, redatta nel 2006 e ratificata dal nostro paese nel 2009. La legge stabilisce, tra l’altro, che la persona con disabilità compartecipi alla costruzione di un progetto di vita individuale e personalizzato “il quale individui i sostegni e gli accomodamenti ragionevoli che garantiscano l’effettivo godimento dei diritti e delle libertà fondamentali, tra cui la possibilità di scegliere, in assenza di discriminazioni, il proprio luogo di residenza e un’adeguata soluzione abitativa” e che sia diretto a “realizzare gli obiettivi della persona con disabilità secondo i suoi desideri, le sue aspettative e le sue scelte, migliorandone le condizioni personali e di salute nonché la qualità di vita nei suoi vari ambiti”.
La direzione è chiara e segnata, non resta che seguirla.