Continua il nostro viaggio #StoriediParkinson, alla scoperta delle persone che convivono con questa patologia.
Con questa rubrica parliamo di Parkinson giovanile e lo facciano attraverso i racconti e le testimonianze dirette di chi vive in prima persona la malattia. Ivana Barberini, giornalista di PERSONE, OLTRE LA MALATTIA, ha raccolto queste storie, una narrazione che parte dall’esperienza individuale ma che si unisce in un’unica voce, quella di un’umanità che soffre ma non smette di combattere.
Vi riportiamo i testi in chiave di medicina narrativa, così come li hanno scritti gli autori e le autrici.
Ecco la storia di Emanuele Ferrara che ha scoperto di avere il Parkinson a 42 anni.

Prima di sapere di essere malato di Parkinson avevo un’altra vita da me ribattezzata la mia prima vita in evidente antitesi con la mia seconda vita, cioè quella, come la chiamo io, “vita con Mr. James”.
Ho scoperto di avere il Parkinson a 42 anni e fino ad allora ho vissuto la mia “prima vita” a velocità estrema, bruciando traguardi su traguardi. Il mio motto era “non devo avere buchi e perdite di tempo nella giornata”, la mia testa mi diceva di essere sempre produttivo e impegnato. E allora ho sempre lavorato duro cercando di migliorarmi, ho conseguito una laurea in legge col massimo dei voti, lavorando, ho comprato casa, ho raggiunto posti apicali nella Pubblica Amministrazione il tutto con enormi sacrifici e non risparmiandomi mai. Insomma per dirla alla Micheal J. Fox -compagno di sventura- viaggiavo sempre a 1000, correvo sempre non guardando mai ciò che mi stava intorno, o, comunque, guardandolo sempre con quel sottile sentore volto a non perdere tempo e all’andare avanti sulla mia strada dritto verso obiettivi non meglio definiti.
Mi sentivo invincibile, non mi preoccupavo minimamente di sommare alla giornata, già piena di appuntamenti, incontri, uscite, cambi di vita; ero uno schiacciasassi inarrestabile.
Incurante di tutto nel 2019 mi resi conto, per la verità senza dargli troppo peso, anzi, di avere un leggero tremore alla gamba destra; tremore che si accentuava nei momenti di pressione emotiva o quando parlavo con qualcuno.
Giammai avrei pensato a Mr. James. Mi mettevo alla guida e il tremore aumentava. Ho cominciato a rivolgermi al medico di famiglia il quale dapprima mi inviò da un neurologo, che, espletate le visite di rito, mi mandò da un ortopedico convinto che si trattasse di una forma di radicolopatia.
L’ortopedico -anch’esso- espletati gli accertamenti di rito, diagnosticò un minimo schiacciamento delle vertebre della colonna, ma nel contempo mi disse: “lei è un soggetto ansioso” (citazione da tenere a mente).
Mi prescrisse qualche integratore e 5 gocce di calmante che per la verità non assunsi con grande continuità, anzi.
Intanto il mio tremore e anche la rigidità alle dita del piede destro si facevano sentire sempre di più. Che faccio? Torno dal medico di famiglia che mi rimanda dal neurologo non sospettando nemmeno lontanamente la diagnosi infausta che mi avrebbero dato addirittura dopo circa 18 mesi!
E qui comincia il mio calvario….. Il neurologo che mi visitò mi disse palesemente, e senza alcuna visita, “Lei è ansioso, se vuole (se voglio?) le prescrivo qualcosa che l’aiuti”. In quella condizione non potei che dire “sì” ormai “eteroconvinto” che si trattasse di ansia cronica e inarrestabile. E così il medico mi prescrisse un noto ansiolitico in pastiglie.
La prescrizione medica parlava di terapia per 30 giorni al termine dei quali ricontattai il neurologo e mi venne detto: “ma sì faccia un po’ lei, se ne ha bisogno lo assuma”. -Da non credere?-
La situazione non fu migliore nemmeno in farmacia: mi venne prescritto dal dottore un ansiolitico a rilascio prolungato. In farmacia una volta non ce l’avevano e mi venne detto -in modo palesemente falso– che esisteva solo il farmaco normale e non a rilascio prolungato ormai fuori commercio.
In poco tempo divenni letteralmente dipendente dall’ansiolitico con inevitabili ricadute psicologiche, di insonnia e depressione. Dormivo una/due ore a notte, dimagrivo a vista d’occhio, stavo malissimo.
Il medico di base mi consigliò di recarmi da uno psichiatra. Qui mi venne prescritto un antidepressivo e un altro medicinale per dormire la notte. La mia situazione peggiorava sempre di più, ma la cosa peggiore si materializzava nel fatto di non riuscire a dare un nome a quel malessere fisico e mentale.
La situazione si protrasse fino alla primavera del 2021 quando, ormai in una stato fisico e mentale devastato, i miei familiari, visto che il Parkinson colpì anche mio padre anni or sono e più risalente nel tempo un mio zio paterno, e pur non ritenendolo possibile vista la mia giovane età, mi consigliarono di rivolgermi ad un terzo neurologo, ma questa volta ad un esperto di Parkinson.
Nel frattempo nella mia mente si aprì il dubbio che poi venne confermato. E questo dubbio era principalmente dovuto a due fattori: mi rendevo conto di avere una chiara ipomimia e non riuscivo più a scrivere (sintomo diffusissimo nella malattia di Parkinson).
Il neurologo esperto confermò il dubbio, pochi minuti di visita ed ecco la sentenza: sindrome di Parkinson lateralizzata a destra. Il tutto venne poi confermato dalla DAT SCAN esame incontrovertibile che attesta la riduzione della via dopaminergica cerebrale.
Quando ebbi la notizia ufficiale, la stessa me la diede mio fratello che delegai al ritiro dei referti medici. Lui mi lesse la diagnosi al telefono e io dissi: “ma allora ho il Parkinson?” e lui rispose con voce sommessa: “pare di sì”.
Immediatamente non ebbi alcuna reazione, ma finalmente ebbi una risposta che spiegava la situazione.
Ero fisicamente molto provato e tutto, specialmente sul lavoro, mi faceva paura. Nei giorni seguenti mi ripetevo “ma perché, perché, perché? Non è giusto e altre parole simili”.
Con il tempo e le difficoltà che aumentano mi restano sempre gli interrogativi, soprattutto relativi alle motivazioni che hanno fatto insorgere la malattia. E allora mi chiedo: “avrò tenuto una vita sregolata prima?” Mi sarò “speso troppo?” Inutile cercare risposte, anche se lo sapessi non mi cambierebbe la situazione.
Come detto ho iniziato una seconda vita. In prima battuta ho cambiato lavoro; ho dovuto optare per un lavoro d’ufficio che mi garantisse un’atmosfera più tranquilla e meno pesante.
Ho smesso di bere (sebbene prima lo facessi in minima parte) qualsiasi tipo di alcolico. Prediligo gli spostamenti in scooter che mi stressano meno e mi richiedono meno coordinazione, ho cambiato la mia alimentazione limitando al massimo le proteine animali a causa della nota interferenza con i farmaci anti – Parkinson.
In generale, ho dovuto introdurre nella mia vita limitazioni più o meno importanti alle attività quotidiane, che, come detto, prima svolgevo sommando impegni a impegni.
Ora mi rendo conto che non posso materialmente mantenere i ritmi di prima: il mio fisico non me lo permette.
Discorso a parte è il rapporto con parenti, amici e conoscenti. In particolare gli sguardi: sono diversi. Quando incontri un parente che magari non vedi da mesi, questo ti guarda -e lo si sente benissimo- con quella classica modalità di chi sta cercando qualcosa nel tuo corpo; nel caso specifico un sintomo della malattia che può essere un tremore, un blocco o qualsiasi altro sintomo specifico.
Il rapporto tra parenti, amici e conoscenti è cambiato anche nei contatti: poche le chiamate o le telefonate che ti cercano… come dire ognuno ha la sua vita…
Addirittura mi sono sentito dire: “sai non mi faccio sentire perché non so come affrontare la situazione…!”
Da parte mia quello che cerco di spiegare è che voglio essere trattato normalmente senza commiserazione o compassione.
Un aspetto particolare è quello che riguarda i professionisti sanitari che con regolarità mi visitano: non ce n’è uno uguale all’altro in termini di approccio alla malattia e cura.
Questo spesso ingenera confusione e ansia nel malato soprattutto quanto si è davanti -e mi è capitato- a dottori che esercitano la professione decantando le proprie qualità e comunicando con ogni mezzo che la propria cura è l’unica al modo percorribile, in uno con una serrata critica a tutti gli altri professionisti del settore.
Si è portati a consultare più professionisti anche se, per ciò che posso consigliare, la malattia esiste, c’è, e bisogna affidarsi ad un solo professionista che ci ispiri fiducia; senza tralasciare una costante attività fisica che è sempre dalla nostra parte sebbene non miracolosa s’intende!
Personalmente posso ulteriormente portare la mia esperienza in relazione al rapporto con la mia compagna la quale è in prima battuta colei che vive “insieme a me” la malattia. Fortunatamente siamo sempre stati una coppia molto affiatata, abbiamo una bimba di 20 mesi meravigliosa e da questo punto di vista la situazione è almeno parzialmente positiva. Mi rammarica tremendamente non essere “attivo come vorrei” nella gestione della famiglia, ma contestualmente mi rendo conto che i ritmi che tenevo prima erano veramente forsennati. Nel rapporto interpersonale faccio fatica ad accettare i cambiamenti miei personali dovuti alla malattia: prima, ad esempio, guidavo solo io la macchina! Ora ho delle difficoltà in alcuni periodi della giornata che mi consigliano, quando possibile, di lasciare guidare la mia compagna.
Insomma bisogna saper accettare di essere aiutati… Non si può fare diversamente, e da questo punto di vista i parenti più stretti diventano fondamentali.
Tanti sostengono che la malattia abbia anche degli aspetti positivi; personalmente sarebbe, a mio parere, quasi falso affermare una teoria simile.
Sono convito che, senz’altro, la malattia ci insegni cose che prima nemmeno guardavamo. E quindi si dà un valore diverso alle cose, nel senso che si capiscono veramente gli aspetti da tenere in considerazione nella vita e si dà un peso diverso alle cose.
Certo è che personalmente sarei disposto a dare tutto quello che ho di materiale in cambio di un colpo di spugna su questa sindrome che ad oggi colpisce sempre più i giovani, e la stessa, è ancora presa in scarsissima considerazione dal mondo che ci circonda.
La speranza personale -e credo si possa estendere a tutti i malati di Parkinson- è che la scienza faccia reali progressi per garantire almeno uno standard di vita qualitativamente migliore.