
Quando la malattia si insinua subdolamente in una famiglia, travolge tutto attorno a sé, equilibri, affetti, consuetudini.
Si diventa improvvisamente egoisti, forse per paura di essere lasciati soli, in preda all’incognita di un futuro difficile persino da immaginare.
Pierangela è la moglie di Alberto, un giovane di 46 anni ammalatosi di Sla (sclerosi laterale amiotrofica) nel 2014 che, nonostante la malattia lo abbia colpito nel pieno della vita, è rimasto il ragazzo solare e positivo di un tempo.
Vivono a Bergamo con i loro due figli, oggi adolescenti.
Da quando gli è stata diagnosticata la Sla, è sua moglie a prendersi cura di lui. Ma oggi, a sette anni da quella infausti diagnosi, Pierangela è stanca. Si sente annullata come moglie, portare avanti la famiglia da sola è dura. L’arrivo di una malattia come questa sconvolge tutti, non solo chi la vive in prima persona.
Come avete scoperto la malattia?
“È stata una cosa abbastanza tortuosa. Nel 2013 ha iniziato ad avere dei dolori al polpaccio che abbiamo attribuito all’attività sportiva che praticava a livello amatoriale, essendo portiere di una squadra di calcetto.
Il problema era però che la sensazione di indolenzimento permaneva per diversi giorni.
Abbiamo perciò deciso di fargli fare dei massaggi dal fisioterapista della sua squadra, ma visto che il dolore non andava via, ci siamo rivolti ad un ortopedico che ha ritenuto opportuno fare una elettromiografia, la quale ha evidenziato una sofferenza alle dita dei piedi che, in effetti, già fine 2013, inizio 2014, riusciva a muovere poco”.
“Hanno cominciato a pensare che potesse trattarsi di un’infiammazione al nervo sciatico, attribuibile ad una botta presa al gluteo durante una partita, ma anche questa ipotesi è stata in seguito scartata.
Alla fine abbiamo interpellato un neurologo che, convinto che fosse la sindrome del piriforme (un disturbo neuromuscolare che coinvolge gambe e glutei, ndr) , gli fece fare una serie di esercizi.
Disperata, perché anche questo tentativo non era andato a buon fine, ho preso appuntamento privatamente al Besta di Milano, dove ci hanno prenotato per il 2015.
Fortunatamente però, si liberò un posto e potemmo andare prima del previsto.
Quando il primario vide camminare mio marito, sbiancò.
Da lì, lo hanno ricoverato per cinque giorni ed hanno iniziato a fargli fare vari test, elettromiografie, evocati motori sensitivi, nonché l’esame del DNA, ipotizzando che quella di Alberto potesse essere una forma genetica della malattia, visto che nella sua famiglia c’era una zia che in precedenza aveva avuto la Sla.
Uscimmo da lì con la “bella” diagnosi”.

Qual è stata la prima reazione che avete avuto?
“Diciamo che il primo anno è trascorso relativamente tranquillo, in quanto, se è vero che facevamo visite continue, lo è altrettanto che tutti ci rassicuravano dicendoci che era una cosa temporanea, risolvibile e quindi la preoccupazione non era ancora eccessiva.
Il primo vero spavento lo abbiamo avuto quando lo hanno ricoverato.
Quando sono andata a riprenderlo, durante il viaggio di ritorno, nessuno di noi due è riuscito a parlare.
Arrivati a casa, ho avuto una reazione smisurata.
Ho pianto per un’intera settimana e non ho voluto sentire, né vedere nessuno.
Alberto, invece, essendo una persona positiva ha continuato a ragionare con mente serena, probabilmente è abituato a tenersi tutto dentro, ed anche in questa circostanza, ha scelto di non dire niente a nessuno di quanto stava vivendo, sino a quando la malattia non è diventata eclatante e non era più possibile nasconderla”.
Come avete affrontato tutti gli step della patologia?
“Tornati a casa dall’ospedale, a mente fredda, gli ho detto che qualunque cosa decidesse di fare, gli sarei stata accanto e ci siamo detti che avremmo affrontato le difficoltà con serenità, man mano che si presentavano, anche per i nostri figli che allora erano piccoli.
Abbiamo preferito non venire a conoscenza delle varie fasi della malattia e questo ci ha permesso di non farci travolgere dalla sua severità devastante e di metabolizzare gradualmente i cambiamenti propri del suo inarrestabile decorso.
Mio marito è stato tracheotomizzato a distanza di quattro anni dal manifestarsi della malattia, quindi nel mezzo abbiamo avuto fasi intermedie, delle cadute e delle rialzate, ma fortunatamente abbiamo sempre avuto il tempo di “adattarci” alle nuove situazioni da fronteggiare”.
Chi era e chi è oggi Alberto?
“Era una persona dinamica, intraprendente, solare, che ha sempre lavorato, un uomo sempre preso da mille impegni.
L’Alberto di oggi è rimasto con la stessa solarità di una volta, con l’unica difficoltà ad accettare di non potersi più recare quotidianamente sul suo cantiere.
Capita spesso infatti che debba andarci io con i bambini, essendo sola e non usufruendo dei contributi regionali sufficienti stanziati per i malati di SLA, non mi è possibile portarcelo tutti i giorni ed il non poter più essere presente come prima nell’attività che, per anni ha gestito in proprio, è motivo di frequenti litigi tra di noi”.
Qual è la condizione attuale di Alberto?
“Ad oggi, l’unica cosa che riesce ancora a muovere sono gli occhi, con i quali comunica con noi attraverso un comunicatore. Ha la tracheo e viene nutrito mediante pec”.
Come si svolge la vostra giornata?
“Al mattino viene una signora che mi aiuta a lavarlo ed a vestirlo. Poi si mette sulla sua poltrona in soggiorno e, tramite il comunicatore, mi dà una mano a gestire l’Azienda di famiglia che, da quando lui non è più in grado di farlo, ho rilevato io e che quindi continuiamo a mandare avanti.
Se ci sono delle belle giornate, può capitarci di uscire per sbrigare delle commissioni, per andare in cantiere o semplicemente per fare una passeggiata.
Altrimenti, se restiamo a casa, alterna momenti di lavoro con altri in cui guarda la televisione e due volte a settimana fa fisioterapia.
Io sono sempre presente, tranne due ore al giorno, che viene una persona che resta con lui, così da potermi dare la possibilità di seguire i bambini nelle varie attività pomeridiane o di far altro”.
Come è cambiata la vostra vita, come coppia e come famiglia?
“La vita è cambiata parecchio, siamo molto limitati, anche le cose più banali come una giornata in piscina non possiamo più permettercela.
I ragazzi si sono adeguati e, nonostante tutto, riusciamo pur sempre a fare qualcosa.
Come moglie mi sono annullata, è questo a lungo andare non va bene, mi sto progressivamente allontanando da mio marito, in quanto più passa il tempo più prevale da parte sua un egoismo smisurato, nei miei confronti.
Non riesce nemmeno a vedere gli innumerevoli sacrifici che faccio per far contenti tutti, questa è la cosa che mi fa piu rabbia.
Lui vorrebbe essere sempre presente ovunque, io nella gestione di tutto sono da sola e spesso penso di non farcela.
La malattia mi ha cambiata anche come donna, ma se all’inizio ero molto accondiscendente e rinunciavo a tutto, anche ad uscire con le mie amiche, adesso non è più così, se mi va di fare una cosa la faccio anche se lui non è d’accordo.
È diventato una “cozza”, senza di me non può stare, non si fida di nessuno che possa sostituirmi e quindi, la maggior parte delle volte che devo andare da qualche parte, vuole venire anche lui altrimenti mi dice di non andare, prima rinunciavo ma ora sono stanca dei suoi capricci”.
Cosa cambia per una donna, quando la malattia entra a far parte del menage di coppia?
“Inizialmente, si è talmente presi da tutto il trambusto scatenato dall’irruzione violenta della malattia, che sconvolge l’esistenza di un intero nucleo familiare, che si ha poco tempo e voglia di pensare ad altro, ma adesso, dopo anni di solitudine, mi accorgo sempre di più, di quanto mi manchi un abbraccio, un bacio, non so nemmeno più cosa vogliano dire”.