Cristina Maselli è oftalmologa e da qualche anno si sta interessando di Medical Humanities e Medicina Narrativa. Nel corso del suo ultimo master ha portato avanti un progetto per raccontare come pazienti e professionisti sanitari vivono la maculopatia, una malattia che colpisce la parte centrale della retina provocano anche gravi problemi di vista, con percezioni distorte degli oggetti e e dei colori.

Dalle narrazioni dei pazienti è emerso soprattutto quanto sia per loro necessario uno spazio e un tempo di “conversazione” più ampio di quello abitualmente concesso durante una visita medica. Il tempo per capire cosa stia loro succedendo o cosa succederà nel breve periodo: perdere la vista.
Come il paziente che si allena al destino ormai segnato…
“Il desiderio è quello di restare come sono, non voglio migliorare ma restare come sono… ma a volte, di notte, faccio le prove e mi muovo senza mai accendere la luce perché penso che devo abituarmi all’idea…”
…..o quello che non accetta la malattia
“Mi piace essere a posto, pulita, ogni giorno mi faccio il bagno. Ma nello specchio, anche con gli occhiali, IO NON MI VEDO… e mi fa una rabbia…”
Cristina ha colto anche il punto di vista dei sanitari, che si sono prodigati per offrire una “cura gentile” nei confronti dei numerosi pazienti che ogni giorno varcano le porte di quegli ambulatori.
“…Credo di essere oramai in grado di affrontare emotivamente quasi tutte le aspettative che i pazienti maculopatici nutrono nei miei confronti, sottolineo che i monocoli e i giovani mi mettono alla prova ancora oggi con tale intensità che spessissimo il loro pensiero mi accompagna anche a casa oppure me ne ricordo di notte”
E ha raccolto anche il vissuto di coloro che si prendono cura in modo silenzioso, i caregiver:
“Dopo la notizia della maculopatia mi sono sentita un po’ condizionata dal fatto che da allora in poi avrei dovuto impegnarmi maggiormente […] e quindi avrei avuto meno tempo a disposizione per me […] è iniziato un periodo in cui non riuscivo più a programmare qualcosa perché lei aveva la precedenza nell’assisterla”
Cristina ha cercato di immergersi totalmente in quei racconti: “Ho avuto bisogno di ritornarci più e più volte e ad ogni passaggio mi è parso di cogliere qualcosa che nelle occasioni precedenti mi era sfuggito. Ho capito che bisogna prendersi il tempo di stare con le parole e dare loro il modo di lavorare dentro di noi, ci vuole il tempo di “abitare le storie”.
Le competenze tecniche sono fondamentali nella cura delle persone, ma senza quelle relazionali, non sono altrettanto efficaci. La Medicina Narrativa può aiutare in questo senso, può essere ponte prezioso tra la Evidence Based Medicine e la Narrative Based Medicine
Abbiamo intervistato Cristina per raccontarci del suo progetto.
Cristina, parlaci di te e della tua professione
Mi sono laureata in Medicina e Chirurgia nel 1988 e poi specializzata in Oftalmologia nel 1992, spinta dal fascino che ha per me questa materia e anche dalla possibilità di prediligere l’aspetto clinico, che più amo, piuttosto che quello chirurgico verso il quale sono poco incline.
Ho infatti scelto di praticare l’attività ambulatoriale in libera professione potendo così programmarne in autonomia tempi e luoghi, assecondando così il mio spirito indipendente e cercando di sottrarmi, almeno in parte, alla tirannia del rendimento misurato come numero di prestazioni eseguite, criterio che sempre più governa le attività delle strutture sanitarie pubbliche e di alcune strutture private più agguerrite.
Il lavoro mi ha sempre dato molta gratificazione e ancora oggi, dopo trent’anni di oculistica sul campo, esco dal mio ambulatorio piuttosto soddisfatta di ciò che faccio e delle relazioni che riesco a coltivare con pazienti e colleghi.
Tuttavia, negli ultimi tre o quattro anni ho cominciato a riflettere sulla necessità di aggiungere “qualcosa” al mio lavoro che, per le sue caratteristiche rischia di diventare talvolta ripetitivo. E’ affiorato il bisogno di offrire al mio sguardo qualche nuova finestra e ho incontrato sulla mia strada le Medical Humanities e la Medicina Narrativa, che hanno risvegliato in me un desiderio di ricerca che da tempo non provavo più.
Ho ritenuto però necessario che l’entusiasmo per questo nuovo territorio da esplorare fosse sostenuto dalla preparazione teorica, così nel 2020 presso l’Università di Modena e Reggio Emilia ho frequentato il Corso di Perfezionamento in Medicina Narrativa con il Prof. Stefano Calabrese e nel 2021 i Corsi Base e Avanzato per Facilitatori di Laboratorio di Medicina Narrativa organizzati da SIMeN, la Società Italiana di Medicina Narrativa. Infine, quest’anno, sono approdata a Milano per il Master in Medicina Narrativa Applicata di ISTUD Area Sanità e Salute, che mi ha offerto l’opportunità di ideare e realizzare questo mio Progetto.
In cosa consiste questo progetto di medicina narrativa dedicato alla maculopatia?
Le malattie della vista hanno un impatto sociale assai rilevante dal momento che oggi la maggior parte delle informazioni e delle attività socio-culturali sono veicolate da “messaggi visivi”. La compromissione della funzione visiva è causa di minor autosufficienza e di isolamento con conseguenti problematiche individuali e sociali il cui peso non ricade solo sul malato ma anche su familiari e caregiver e su tutti gli operatori sanitari coinvolti nella gestione della patologia.
A tutti loro è dedicato “LINEA-PUNTO-LINEA: VOCI E SGUARDI DI CURA PER LA MACULOPATIA”, un progetto di Medicina Narrativa Applicata ideato per cercare di mettere a fuoco la dimensione umana, emotiva e relazionale di coloro che si confrontano con la maculopatia, offrendo uno spazio protetto dedicato all’ascolto delle diverse voci che raccontano la percezione della malattia.
Il Progetto si è realizzato grazie alla disponibilità di due diverse Strutture Sanitarie, una pubblica e una privata:
- Unità Operativa Complessa di Oculistica dell’Ospedale di Montecchio Maggiore (Vicenza), AULSS 8 del Veneto con il Direttore Dott.ssa Sandra Radin e i Colleghi, Infermieri e Ortottisti che si occupano dell’Ambulatorio Retina Medica
- Ambulatorio di Oculistica del Centro Medico OTI CLINIC srl sito a Torri di Q.lo (VI) presso il quale presto personalmente servizio
E ha potuto contare sulla collaborazione di 27 “narratori” – 12 pazienti, 9 familiari e 6 professionisti sanitari – che hanno accolto la mia proposta di condividere le loro esperienze.
Come è stata questa esperienza?
L’esperienza è stata molto potente e l’eco delle voci che ho ascoltato risuona ancora con forza dentro di me.
Questo lavoro è stata un’occasione per guardare in modo diverso le esperienze dei pazienti che quotidianamente visito, avvicinandomi al loro mondo con un altro punto di vista.
Mi hanno emozionata e commossa raccontando delle loro piccole e grandi difficoltà quotidiane, di cui raramente possono parlare durante la visita oculistica e il dono più bello è stata la loro sorpresa e gratitudine per questo spazio mai sperimentato prima.
Mi ha stupita la tenerezza e la dedizione dei familiari e ho visto come mariti, mogli, sorelle e figlie siano preziosi sostegni per queste vite che camminano in bilico sul filo del buio.
Guardando una figlia che accompagnava i passi incerti della propria madre ho pensato che quel momento fosse un’occasione che la vita offre per ricambiare i “doni di Cura” che abbiamo ricevuto da piccoli…
Per quanto riguarda l’esperienza con i Professionisti Sanitari, ho apprezzato la possibilità di tornare per alcuni giorni nei corridoi affollati di un Reparto e stare a contatto con i Colleghi e con le infermiere e Ortottiste.
Il mio ruolo di Oculista ambulatoriale mi ha quasi fatto dimenticare con quale precisione devono funzionare gli ingranaggi di una macchina così complessa.
Ho visto l’operosità di tutti, dalla Primaria, sempre la prima ad arrivare, a ciascuno dei suoi collaboratori responsabili delle varie attività di Reparto. Li ho visti muoversi senza sosta negli spazi lindi e organizzati in modo funzionale, con atteggiamento di “cura gentile” nei confronti dei numerosi pazienti che ogni giorno varcano le porte di quegli ambulatori.
Ho cercato di immergermi totalmente in quei racconti, ho avuto bisogno di ritornarci più e più volte e ad ogni passaggio mi è parso di cogliere qualcosa che nelle occasioni precedenti mi era sfuggito.
Ho capito che bisogna prendersi il tempo di stare con le parole e dare loro il modo di lavorare dentro di noi, ci vuole il tempo di “abitare le storie”.
Ho alternato momenti di entusiasmo a quelli di scoramento, tra dubbi ed incertezze ma con il procedere del lavoro sono diventata più padrona del metodo di analisi appreso durante le lezioni del Master e mi è sembrato via via più semplice muovermi all’interno delle classificazioni. Tuttavia per alcune narrazioni mi è rimasta l’impressione che la collocazione all’interno di uno schema precostituito fosse meno fattibile: storie che oscillano di continuo tra le contrastanti sfumature dei sentimenti, storie scandite dalle alterne fasi della malattia – paura e coraggio di affrontare le difficoltà, pessimismo e speranza… – che sfuggono alle certezze delle categorizzazioni e che con fatica trovano posto nei numeri, nei grafici e nelle tabelle che tutto vorrebbero provare a definire e incasellare.
Quali risultati sono emersi e come vorresti proseguire questo progetto?
Dalle narrazioni dei pazienti è emerso soprattutto quanto sia per loro necessario uno spazio e un tempo di “conversazione” più ampio di quello abitualmente concesso dal breve colloquio anamnestico che apre e chiude la visita medica. Che a fianco della competenza professionale vi siano le competenze relazionali perché hanno bisogno di poter raccontare il loro “vivere la malattia”, di sentirsi non solo un corpo da indagare e curare ma anche una voce da ascoltare, parole da condividere.
Qualche stralcio dalle loro narrazioni:
“…prima vedevo la gente …e la riconoscevo e poi in un attimo non ci ho più visto… “
“Se entra qualcuno in casa non lo riconosco e devo chiedere: “Dimmi chi sei?” perché non ho più la possibilità di riconoscere nessuno.”
“La vita è diventata molto più complicata…A non vedere bene è come se avessi perso dieci anni di vita”
“La maculopatia mi ha creato una dipendenza dagli altri… ora deve sempre esserci qualcuno…”
“Io penso questa cosa ma non l’ho mai detta a nessuno: penso che con il tempo non ci vedrò più”
“Ad un certo punto mi sono resa conto che qualcosa non andava perché mi succedevadi avere una percezione distorta della realtà visiva. […] Ho iniziato a preoccuparmi perché la confusione visiva mi destabilizzava”
“In casa mi capitava di controllare che i quadri fossero dritti, gli oggetti al proprio posto e i libri cominciavo ad accantonarli. Lo sconforto stava diventando preponderante”
“Dopo aver perso il primo occhio, quando ti diagnosticano la maculopatia anche nell’occhio buono, lì ti viene ancora più paura perché adesso ne hai due, di malati”
“Io dico sempre che una persona sorda è più indipendente di una persona che non vede perché va ovunque e in qualche modo si fa capire; uno che ha problemi di vista è veramente bloccato. La vista è tutto”
I familiari hanno potuto esprimere le loro esperienze ed emozioni raccontando di vite in parte condizionate dai bisogni del loro caro e dalle preoccupazioni per il futuro.
“….io per ora sono condizionato al 100%. Lo faccio volentieri ma preferirei poter fare altre cose. In questo momento mi sto dedicando e mi rendo conto che c’è bisogno di fare così perché non c’è altra strada…, c’è una responsabilità […] sono convinto che dentro di me è qualcosa che lavora, che mi crea un po’ di ansia ma penso che sia normale […] Mi ha fatto piacere poter raccontare perché credo che ci sia bisogno di buttare fuori le cose, dire quello che si ha dentro fa sempre bene sia che siano cose belle sia che siano cose brutte. Puoi mascherare finché vuoi ma se hai qualcosa dentro lui fa il suo lavoro e quindi credo che parlarne mi fa solo bene”
I doni avuti dalle storie dei professionisti sanitari sono forse quelli che più mi hanno sorpresa: non immaginavo una così grande capacità auto-riflessiva e tanto coinvolgimento emotivo nel loro lavoro di Cura, come siano davvero in grado di intenderla e di porgerla “pienamente”.
Mi ha colpita il loro desiderio di cercare costantemente un equilibrio, che talvolta sembra precario, tra le loro competenze tecniche da un lato e, dall’altro lato, le attitudini relazionali e la capacità di gestire le loro stesse emozioni; in alcuni scritti si legge chiaramente il bisogno di acquisire strumenti per rafforzare queste ultime abilità ed è una richiesta che andrebbe seriamente considerata per salvaguardare il benessere fisico, mentale, emotivo dei professionisti della Cura: chi cura i Curanti ?
“Penso che i pazienti da me si aspettino innanzitutto di essere presi in considerazione come persone, quindi trattati con gentilezza e rispetto…”
“Con tanti Pazienti si instaura un rapporto di familiarità, stima e anche affetto reciproco…”
“Hanno bisogno di conforto e rassicurazioni, che tu solo in parte puoi dare; con loro cerco di fare appello a tutta la pazienza che ho, respiro a fondo…”
“Cerco di non essere solo un’oculista, limitandomi alla cura della patologia, spesso mi ritrovo nelle vesti di psicologa, l’orecchio amico che ascolta, rassicura, non illude, ma non toglie mai la speranza”
“Questa tipologia di pazienti mi fanno molto tenerezza in quanto sono fragili ed impauriti. Tuttavia, con il mio lavoro, cerco di comprenderli, assecondare le loro necessità e fare in modo che il percorso della malattia venga affrontato con più serenità, anche se si sa che una risoluzione completa del problema nella maggior parte dei casi non c’è”
“Ogni paziente ha la sua storia e, di conseguenza, ognuno affronta la malattia in modo diverso e sta a noi professionisti sanitari riuscire a comprendere il paziente in modo da poterlo accompagnare nel suo percorso di cura nel modo più personalizzato e rassicurante possibile”
“Ci si sente impotenti, frustrati di fronte alle loro aspettative illuse, perché spesso le terapie a disposizione stabilizzano semplicemente i quadri clinici senza un recupero funzionale soddisfacente”
Intrecciando le storie alla ricerca di un tratto che le possa accomunare si può forse dire che sono tutte legate dal bisogno di avere più TEMPO…il mio Progetto ha provato a ritagliarne un piccolo spicchio dentro il quale poter riunire, assieme alla mia, le vite di pazienti, familiari, Medici, Infermieri e Ortottisti e spero di esserci riuscita.
Infine LINEA-PUNTO-LINEA ha l’obbiettivo di dare LUCE alle storie, accendendone una per ciascuna di quelle ascoltate, considerandole come piccole stelle che abitano lo stesso cielo e che chiedono solo di essere viste e di sembrare meno lontane.
C’è un messaggio che vorresti lanciare verso le tue colleghe e colleghi?
Vorrei che ci fosse una maggior consapevolezza del fatto che l’atto di Cura ha mille sfaccettature e che le competenze tecniche devono essere sempre praticate assieme a quelle relazionali. Entrambe sono abilità che hanno bisogno di essere allenate e la Medicina Narrativa può offrire strumenti per aumentare le proprie risorse facendo da ponte tra la Evidence Based Medicine alla Narrative Based Medicine.