Lorenzo Antinucci è un infermiere di 33 anni e si occupa di assistenza domiciliare. La sua è stata una scelta ben precisa. Ogni mattina si reca dai suoi pazienti, convinto che curare le persone a casa propria, quando è possibile, e conservare l’unità del nucleo familiare, siano elementi importantissimi nel processo di guarigione.

Ci racconta cosa vuol dire essere un infermiere a domicilio, perché ha scelto questa professione e di cosa si occupa.
Lorenzo, cosa fa esattamente un infermiere a domicilio o territoriale?
Per prima cosa si occupa della somministrazione della terapia farmacologica prescritta dal medico, sia per via orale, sia parenterale. Esegue i prelievi ematici e non, necessari al monitoraggio della malattia, e cerca di prevenire l’insorgenza di nuove patologie, evitando anche la progressione di quella già in atto.
Si occupa anche della gestione delle ferite chirurgiche e delle medicazioni, dei device e di tutti i presidi necessari alla terapia farmacologica, per scopi diagnostici o per tenere sotto controllo i parametri vitali. Collabora con il medico di famiglia, con cui lavora in équipe anche con altri professionisti sanitari ,come il fisioterapista o il logopedista o ancora il medico specialista.
È importante, infatti, considerare tutti gli aspetti della patologia e avere un approccio multidisciplinare. L’infermiere diventa una specie di collegamento tra queste figure e, soprattutto, segnala al medico cosa accade a quel singolo paziente.
Ad esempio, se ha una reazione avversa a un farmaco e quindi è necessario cambiare molecola o aggiustare il dosaggio. Ma presta attenzione anche al benessere psicofisico del paziente con interventi di vario tipo.
Può farci un esempio del lavoro che svolge un infermiere a domicilio?
Certamente. Se il paziente è a rischio piaghe o ulcere da pressione, è l’infermiere a richiedere alla ASL o a consigliare alla famiglia l’acquisto di un materassino anti decubito per ridurre il rischio di ulcerazioni, che sono piuttosto dolorose. In realtà, l’approccio al paziente deve essere di tipo olistico, cioè complessivo, sotto ogni punto di vista. Non serve occuparsi soltanto della salute fisica, ma è necessario considerare anche il benessere psicologico. Se in casa ci sono tensioni o nervosismo, è l’infermiere che cerca di ridurre al minimo lo stress del paziente, magari dando qualche consiglio al familiare o al caregiver o precise istruzioni su come comportarsi. Chi è coinvolto dal punto di vista emotivo non sempre sa cosa fare oppure pensa di fare bene e, invece, crea disagio, perde di vista il benessere del malato. L’infermiere, in poche parole, aiuta il paziente e la famiglia a convivere con la malattia e a non sentirsi abbandonati.
Che tipo di pazienti assiste in questo momento?
In questo periodo assisto tutte persone che hanno avuto un ictus o un’ischemia grave, cioè un danno cerebrale e necessitano di terapie farmacologiche specifiche per evitare ricadute e arginare la malattia. Alcuni di loro sono autonomi, camminano ma hanno perso alcune facoltà cognitive, altri non sono autosufficienti ma hanno conservato il linguaggio o la capacità di comprendere. Assisto un paziente giovane che ha una vita piuttosto attiva, ma non capisce esattamente cosa accade intorno a lui. Sono tutte differenze dovute alle aree del cervello colpite.
Perché ha scelto di lavorare come infermiere a domicilio?
Ho scelto questo lavoro per essere di aiuto e di sostegno alle persone malate, in modo scientifico e professionale. Per dare un’assistenza concreta, tangibile, al fine di migliorare le condizioni di salute di una persona, per quanto sia possibile.
Il mio obiettivo è di essere un infermiere a tutto tondo, che può lavorare in sala operatoria, nelle terapie intensive, nei reparti ospedalieri, imparando tecniche mediche complesse e innovative, ma anche nell’assistenza domiciliare, perché offre uno spaccato molto diverso dall’ospedale: è un mondo a sé, è necessario entrare in punta di piedi, ma ci si sente apprezzati, si diventa una persona di cui fidarsi e a cui affidarsi. All’inizio non è facile, si entra nelle case, nelle vite dei pazienti, si affrontano questioni anche non strettamente cliniche come la badante un po’ troppo severa con gli anziani o il dolore dei familiari in caso di malattie incurabili. Si impara a non toccare la sedia del nonno o ad aspettare che ti offrano un bicchiere d’acqua. Ci sono quelli che ti chiamano dottore perché sanno che sei laureato e quelli che invece ti chiamano per nome perché somigli tanto al “nipotino” (che ha la mia stessa età!). Ma la riconoscenza, quegli occhi pieni di gratitudine, quel grazie sincero ti ripagano di tutto, della fatica, del traffico, dell’alzataccia la mattina presto. Sono sensazioni forse difficili da spiegare.
Qual è l’esperienza che più l’ha colpita nel suo lavoro?
Ce ne sono due, una bella, l’altra meno. Partiamo dalla prima. Lavorare nel complesso operatorio di cardiochirurgia del Policlinico Umberto I di Roma, dove si eseguivano interventi di bypass coronarico, è stata un’esperienza molto significativa e che mi ha arricchito dal punto di vista umano e professionale. Mi ha fatto capire cosa vuol dire il lavoro dell’infermiere in équipe con l’anestesista, il chirurgo e gli altri infermieri. Mi ha fatto sentire parte integrante di una squadra di professionisti che, nonostante le diverse funzioni, hanno tutti lo stesso obiettivo: salvare una vita o ridare una buona qualità di vita a una persona malata. È il gioco di squadra che conta e solo se si gioca in squadra i risultati sono migliori e soprattutto ci sono.
E l’esperienza meno bella?
È un ricordo molto triste e anche un po’ traumatico. Nel reparto di chirurgia vascolare arriva un paziente con un dolore alla gamba. In meno di venti minuti è morto per un’embolia. Mi sono sentito impotente, mi sono chiesto più volte “avrei potuto fare qualcosa? Agire in qualche modo? Potevo accorgermi di ciò che stava accadendo?”. Questi pensieri mi hanno accompagnato per parecchi giorni. È stato il primo paziente che ho perso. Non ci si abitua mai alla morte, si cerca di non pensarci, ma l’impatto è sempre forte.
Quali sono le difficoltà che affronta ogni giorno nel suo lavoro di infermiere a domicilio?
Devo dire che mi reputo fortunato. Ad esempio, non ho mai avuto problemi con i medici di famiglia, c’è e c’è sempre stata una reciproca collaborazione per il bene del paziente. Mi ascoltano con attenzione, perché partono proprio da me le informazioni di base, oltre che dai risultati degli esami diagnostici, su cui impostare la terapia più adeguata. È, infatti, l’infermiere la figura di riferimento del paziente, quella con cui è quotidianamente a contatto.
Devo dire che sono stato meno fortunato quando mi sono trovato io ad essere paziente, ma è un’altra storia!
Aggiungo che a volte non è semplice far capire ai caregiver stranieri, che non parlano e non comprendono bene l’italiano, cosa devono fare esattamente, quante gocce di medicinale dare al paziente o in che orario. Devo essere sicuro che abbiano compreso, che siano in grado di assolvere a questo compito. Devo essere certo che il paziente è al sicuro una volta che sono andato via. Con un familiare è diverso, ma a volte anche la componente emotiva può creare qualche difficoltà.
È fondamentale stabilire un buon rapporto con il paziente, comprendere il suo disagio e il dolore che ogni malattia porta con sé, agendo sempre con rispetto e professionalità. Fiducia e collaborazione sono le parole chiave per un infermiere domiciliare. Parlare e informare con chiarezza, con parole comprensibili, sia il paziente, sia il caregiver è il primo passo per abbattere la diffidenza o perfino l’ostilità verso la terapia e gli interventi sanitari che spesso modificano anche pesantemente la quotidianità.
Lorenzo, cosa si sente di consigliare a un giovane che vuole intraprendere questa professione?
È importante che capisca la differenza tra un infermiere domiciliare e uno ospedaliero, anche se all’inizio si troverà su entrambi i fronti. I neolaureati in genere si trovano ad affrontare come prima esperienza proprio l’assistenza domiciliare. Ed è qui che acquisiscono un bagaglio professionale ma anche umano da “spendere” poi eventualmente in un reparto ospedaliero.
Diciamo che è una tappa fissa per il 90% degli infermieri, una fase che comunque consiglio di intraprendere perché arricchisce molto dal punto di vista professionale ed emotivo.
Consiglio anche di essere pronti a studiare molto, a non sottovalutare le ore di studio e di tirocinio nei reparti, di insistere e non mollare. È importante anche riuscire a gestire le emozioni che si provano quando si attraversa per la prima volta una corsia di un ospedale.
C’è una cosa forse sottovalutata di questo mestiere: la materia di studio è molto vasta, si toccano tutti i settori della medicina e occorre essere in grado di lavorare in tutti i reparti. È come se si studiasse medicina ma in tre anni. Certamente non si approfondisce tutto, ma si deve sapere un po’ di tutto. Non è come, ad esempio, un fisioterapista o un logopedista che studiano prevalentemente l’anatomia di testa e collo o ossa e muscoli. Noi ci occupiamo di tutto il corpo e quindi un’infarinatura complessiva è necessaria. La mole di lavoro è tanta, non lo nascondo, ma la soddisfazione è dietro l’angolo e ripagherà tutta la fatica. Quando un paziente raggiunge gli obiettivi di cura previsti, siamo stati noi ad aiutarlo, a raggiungerli insieme a lui. È questa forse la chiave giusta per affrontare questa professione: sentirsi utili nell’aiutare chi soffre.
Da SAPERE

L'infermiere a domicilio
- Che cosa fa l’infermiere a domicilio? Assicura lo svolgimento delle prescrizioni terapeutiche e diagnostiche indicate dal medico a tutti quei pazienti che per varie ragioni sono curati presso le loro abitazioni. Offre un supporto professionale evitando il ricovero in ospedale.
- In quali casi contattarlo? In tutti quei casi in cui, per ragioni legate all’età, alla disabilità, a patologie croniche, a situazioni di vulnerabilità o alla difficoltà di deambulazione, un paziente non può recarsi in ospedale.
- Come si contatta? La necessità di ricevere cure domiciliari può essere segnalata alla ASL dal medico di base, dal medico ospedaliero, dai familiari o dall’assistente sociale. È possibile rivolgersi anche a delle cooperative private o a infermieri che svolgono la libera professione.
- Come si fa a diventare infermiere? Iscrivendosi al corso di laurea triennale in Scienze infermieristiche (Facoltà di Medicina e Chirurgia) presso la maggior parte delle università italiane. Si tratta di corsi a numero chiuso, pertanto è necessario superare un test di ammissione. Dopo i tre anni è possibile proseguire gli studi iscrivendosi al corso di laurea magistrale (biennale), sempre superando il test d’ingresso.
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