Una diagnosi ti cambia la vita, quasi sempre in peggio. Soprattutto quando si tratta di una malattia rara, anzi ultrarara, una di quelle che fanno tanti casi per milione di persone all’anno da poterli contare sulle dita di una mano. Una “tranvata”, la definisce Massimo, riassumendo in una sola parola quello che cercavo di spiegare con numeri ed espressioni circostanziate.

Massimo Chiaramonte
Massimo Chiaramonte, 55 anni, ha scoperto così, in maniera molto traumatica (non facciamo fatica a crederlo) di essere affetto da porpora trombotica trombocitopenica, una patologia del sangue che può causare serie conseguenze agli organi vitali, quando non addirittura la morte. Una malattia che quando arriva arriva, e te ne accorgi, perché il più delle volte si manifesta in modo violento. Ti spiazza, genera sintomi che distraggono, fanno pensare ad altri disturbi e intanto produce danni.
Le manifestazioni iniziali della porpora trombotica trombocitopenica sono generiche: febbre (quasi sempre bassa), malessere generale e mal di testa. Nulla che faccia presagire qualcosa di grave, tutt’al più un’influenza. Poi fanno capolino altri sintomi, più allarmanti, come le petecchie, macchioline rosse della pelle (non a caso la malattia si chiama porpora) che sono il risultato di piccole emorragie; possono sanguinare anche le gengive o il naso.
Se non viene trattata adeguatamente e in tempi rapidi, la crisi può evolvere verso una trombosi cerebrale o un infarto e uccidere il malato.
Massimo trova in fretta il modo per farmi capire come ci si sente dopo la diagnosi: “Subito si spengono le luci”. Rimani al buio e ti muovi nelle tenebre dell’ignoranza: cos’è questa malattia, cosa devo fare ora? Non è semplice capire come muoversi quando anche i medici ai quali chiedi risposte non sono in grado di dartene.
Anche per questo lui si è messo a disposizione delle persone che soffrono del suo stesso disturbo e delle loro famiglie: da Presidente dell’Associazione Nazionale Porpora Trombotica (ANPTT) chiama con grande senso di solidarietà gli altri malati “i miei fratelli e le mie sorelle di patologia”, che raggiunge per eventi e iniziative in tutte le Regioni del Paese.
Ha paura di viaggiare, di sentirsi male lontano da casa?
“No, viaggio molto. Con le dovute accortezze riesco a vivere una vita tranquilla, anche se non per tutti i pazienti è così. Vede, la diagnosi non è che l’inizio: l’andamento della malattia va molto in parallelo con quello che è il follow up. E il nostro Paese è uno stivale fatto di pelle di leopardo: non abbiamo tutti la stessa assistenza. C’è chi nasce in una certa area geografica ed è più fortunato. Ma non tutti nascono, faccio per dire, in Lombardia e prendo la Lombardia come esempio perché è una di quelle Regioni che offre le prestazioni migliori. Io stesso, che vivo a Roma, devo spostarmi, cambiare Regione per poter eseguire dei test in modo gratuito”.
Ma non esistono criteri di esenzione nazionali?
“Sì, noi che soffriamo di porpora trombotica trombocitopenica abbiamo un’esenzione formalmente riconosciuta dal Decreto 279/2001, valida su tutto il territorio nazionale, illimitata. Ma nella sostanza le cose non stanno così. Dal Lazio, io mi devo spostare per eseguire i controlli previsti per la mia malattia, perché qui si effettuano solo a pagamento: ci sono ospedali che li offrono in SSN, ma solo ai pazienti che hanno preso in carico. Il posto più vicino dove i test possono essere eseguiti con l’esenzione è Firenze, oppure in Campania. Io mi posso permettere economicamente di spostarmi, ma non tutti i pazienti sono in questa condizione. Lo stesso problema ce l’hanno anche gli amici della Calabria e della Sicilia e, fino a poco tempo fa, anche della Sardegna”.
Qual è la cosa che fa più soffrire?
“Il fatto che non ti senti tutelato da chi dovrebbe farlo, lo Stato. E sei frustrato, perché devi pagare per sapere se le tue condizioni di salute si sono aggravate quando la Costituzione dice che la salute è un diritto. Ferisce anche la mancanza di sensibilità che spesso si nota in alcuni medici. Quando mi sono presentato per il riconoscimento dell’invalidità, l’incaricato dell’INPS responsabile della mia pratica non conosceva la malattia e mi ha anche detto che sembrava stessi piuttosto bene. Allora io mi sono detto: come puoi essere qui a stabilire a cosa io ho diritto se nemmeno conosci il mio problema, le mie difficoltà con la memoria, con la stanchezza? Ma devo dire che ci sono anche medici molto preparati e attenti: io sono stato salvato da una ragazza, una specializzanda, che ha riconosciuto subito i sintomi, ricordandoseli dall’esame di ematologia”.
Quanti altri bisogni insoddisfatti hanno i pazienti che soffrono di porpora trombotica trombocitopenica?
“Si sentono soli, non hanno alcun aiuto a livello psicologico che li possa accompagnare per riuscire a superare il trauma di sapere di avere una patologia potenzialmente fatale, di avere una spada di Damocle fissa sulla testa”.
Massimo usa una terminologia precisa e appropriata, insolita per una persona che non si occupa di salute per formazione accademica e professione. Ancora una volta, è il suo ruolo nell’associazionismo, il suo farsi promotore dei diritti di una piccola grande comunità di pazienti ad emergere.
“Come associazione abbiamo creato dei gruppi di autoaiuto, ma c’è bisogno di un professionista che sappia fornire gli strumenti di supporto adeguati. Molte persone rimangono ferme al momento prima della diagnosi: non riescono più a fare nulla, a darsi nuovi obiettivi, a reagire. E poi c’è bisogno di tenere viva l’attenzione sulle donazioni di sangue. La nostra malattia si cura con gli immunosoppressori e la plasmaferesi, la sostituzione del plasma, che può essere effettuata solo se ci sono donatori, altrimenti non ne basta per tutti”.
Possibile che non ci sia una soluzione migliore in grado di controllare la malattia? Massimo non ha fatto cenno, nel suo racconto, all’anticorpo monoclonale approvato qualche anno fa, che ha cambiato la vita di molti pazienti.
Non ha potuto beneficiare del caplacizumab?
“No, purtroppo non rientravo nel gruppo cui spettava la dispensazione. Il caplacizumab è stato approvato nel 2019 come farmaco indicato nei pazienti con la malattia in fase iniziale, ai primi episodi e io ero malato da tempo. Mi auguro che ci siano ulteriori sviluppi per questo medicinale, di cui siamo tutti entusiasti. Magari, con alcune modifiche, potrebbe essere esteso il suo campo di applicazione. Adesso, in caso di recidiva, è il rituximab a darci una mano, una forte mano, ma non è disponibile in tutte le Regioni”.
Cosa si augura da questo punto di vista?
“La mia speranza è l’approvazione di un protocollo unico di terapia. Sono molto soddisfatto della pubblicazione delle Linee Guida, alla cui stesura la nostra associazione ha partecipato come membro deliberante: il nostro voto aveva lo stesso valore di tutti gli altri esperti, capisce? Sono uscite 12 giorni fa: spero che gli operatori sanitari le seguano in maniera più uniforme”.
Massimo mi ha raccontato del numero impressionante di difficoltà che i pazienti devono superare, ma mi ha lasciato intendere (“non reagiamo tutti allo stesso modo”) che non producono sempre lo stesso effetto.
Si sente più temprato o più infragilito dalla malattia?
“Personalmente mi sento molto temprato, molto motivato, vado avanti come un treno e non mi fermo. Anche la mia famiglia ha reagito con la stessa energia, ho trovato molto sostegno da parte dei miei genitori e di mio fratello: con loro non mi sono mai sentito solo. Ho anche avuto l’opportunità di formarmi: mi sono diplomato Paziente Esperto presso l’Accademia dei Pazienti Eupati Italia. Posso confrontarmi alla pari con i medici e oggi stiamo cercando di fornire a tutti i pazienti interessati questi strumenti”.
In che senso “alla pari”?
“Questo, vede, è un vantaggio: la formazione accorcia le distanze fra medico e paziente, si riesce ad avere un buon livello di dialogo e di comprensione da ambo le parti”.
Il paziente esperto che conosce la sua malattia, che è in grado di dare un nome ai sintomi si spiega più chiaramente, consentendo al medico di capire prima il problema risparmiando tempo prezioso, e comprende di più ciò che gli viene detto. Ma la formazione non è tutto: Massimo sottolinea i vantaggi dei gruppi di autoaiuto, che “aumentano la consapevolezza e migliorano la gestione della malattia: i pazienti hanno capito che è un loro diritto sapere ed è un loro diritto anche scegliere. Altri, purtroppo, non si confrontano ma accettano passivamente tutto ciò che viene detto, anche se non capiscono o non condividono”.
Ma non è che anche i medici hanno un po’ bisogno di essere formati in tema di comunicazione?
“Il sistema sanitario dovrebbe dedicare personale specifico alle malattie rare, composte da professionisti che le conoscono, che sappiano parlarne, che siano vicini ai pazienti, perché noi questo lo cerchiamo. Io ho bisogno di sapere che quel medico si sta occupando di me perché sa che ho un problema grave e mi vuole aiutare. Devo fare davvero un plauso a tutti gli specialisti così che ho incontrato, che sono molto amati dai pazienti”.
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