Continua il nostro viaggio alla scoperta della medicina narrativa, attraverso i racconti di chi la sta effettivamente usando. Oggi vi proponiamo l’intervista a Maria Teresa Agneta, igienista dentale, che nel corso del Master in Medicina Narrativa promosso da ISTUD ha realizzato un project work dedicato ai genitori di bimbi e bimbe autistici e ai professionisti sanitari che se ne occupano. Il progetto di chiama “La seconda vita”… quando scopri di avere un figlio” speciale”.
“Mi sono resa conto – ci ha detto Maria Teresa – di quanto sia fondamentale cercare di capire quali siano i pensieri, le emozioni, il bisogno di ascolto, le conoscenze di questi genitori e soprattutto il loro modo di vivere l’autismo del figlio, per poterne migliorare sia l’approccio che l’aspetto assistenziale. Ho ritenuto importante dare voce anche ai professionisti che hanno in carico i ragazzi con autismo per capirne il punto di vista e i sentimenti”. Le narrazioni sono state raccolte presso la U.O.C di Odontostomatologia del Policlinico di Bari, Direttore Prof. Gianfranco Favia e l’Associazione Modelli si Nasce, con sede a Roma, che si occupa di ragazzi autistici, con lo scopo di dar loro un futuro dignitoso e aiutarli nell’inserimento nel mondo del lavoro.
Parlami di te e della tua professione

Mi chiamo Maria Teresa Agneta, sono un’igienista dentale, mi occupo della salute orale, l’aspetto educativo è il fulcro del mio lavoro: motivare i pazienti a cambiare stile di vita per poter migliorare le condizioni di salute del cavo orale. Motivazione, adherence, concordance, sono solo alcuni dei concetti utilizzati nella mia attività soprattutto quando parliamo di comunicazione efficace, al fine di creare un patto terapeutico con la persona e raggiungere gli obiettivi prefissati. In tutti questi anni non ho smesso di aggiornarmi, ho continuato la mia formazione e con la mia curiosità e voglia di crescere sono arrivata alla Medicina Narrativa grazie alla quale ho “scoperto un mondo”, mi sono subito entusiasmata e ho deciso di intraprendere questo nuovo percorso con la consapevolezza della necessità di guardare il paziente da un altro punto di vista.
Un paziente non è un numero di cartella clinica o una “patologia”, è un individuo con una sua soggettività, una personalità, una storia e la narrazione ci permette di accedere alla sua esperienza di malattia e valorizza il suo punto di vista. Il professionista ha la responsabilità di ascoltare i racconti in maniera rispettosa e professionale e soprattutto etica in quanto, colui che narra, espone parti di se’ intime e riservate. La Medicina Narrativa, dunque, favorisce la co-costruzione del percorso di cura. Il Master in Medical Humanities frequentato presso l’Università di Modena e Reggio Emilia, rappresenta il mio primo passo di un cammino ancora molto lungo in questo campo, ancora tutto da scoprire, nel quale si è inserito il Master di Medicina Narrativa Applicata di ISTUD a Milano che mi ha dato la possibilità di sviluppare il mio progetto.
Perché hai deciso di occuparti di medicina narrativa e autismo?
L’idea di questo progetto è nata dalla osservazione durante la pratica clinica, del rapporto tra i caregiver/genitori dei bambini/ragazzi autistici ed i professionisti. Ideare e realizzare questo progetto se da un lato, non è stato molto semplice sul piano pratico, dall’altro è stato un’esperienza toccante sul piano emotivo per quanto concerne le narrazioni dei genitori.
Ciò che è emerso fin dalla prima fase di preparazione del progetto è stata la difficoltà a raccogliere le storie, sia da parte dei papà restii a partecipare al progetto, sia da parte delle mamme che hanno manifestato, quasi tutte, una certa resistenza a raccontare perché restie a riandare al passato, al rivivere i momenti difficili della scoperta e diagnosi di autismo. Proprio per questo motivo sono state raccolte solo dieci storie dei genitori, rispetto alle venti programmate e solo tre dei professionisti.
Tale resistenza è stata amplificata dal fatto di dover “ scrivere” , forse perché la scrittura mette di fronte agli occhi ciò che spesso non si vuole vedere, mette “a nudo” e non tutti sono pronti a fare questo viaggio interiore, alcune narrazioni infatti sono state escluse dal progetto perché i testi erano eccessivamente brevi, tanto da non poter essere sottoposti ad una corretta analisi. Tutte queste narrazioni hanno evidenziato la sofferenza esplicitata soprattutto dalle mamme, anche se trasformata in consapevolezza, forza, per affrontare la situazione, che a mio avviso è sempre presente o almeno è ciò che è arrivato a me. Mi sono resa conto di quante difficoltà questi genitori devono affrontare nella loro quotidianità e di quanto sia importante ascoltare anche il loro silenzio.
Sono diventata sempre più consapevole dell’importanza di prendersi cura non solo del paziente ma di tutto cio’ che ruota attorno alla persona assistita e di cui nessuno si fa carico. Sono sorte emozioni contrastanti, difficili anche da descrivere, di impotenza e di tenerezza, di frustrazione e di affetto…
Mi sono messa in discussione, mille domande si sono affacciate su cosa fare per poter migliorare la qualità di vita di queste persone, come dare loro l’opportunità di essere assistiti nella giusta maniera. Da questa esperienza mi porto dietro la tenacia, la forza di proseguire in questo cammino appena iniziato, per aumentare l’attenzione e l’ascolto verso questa fascia di popolazione, ma anche l’entusiasmo e il desiderio di lottare per le giuste cause.
Per quanto riguarda la raccolta delle narrazioni dei professionisti, sono state analizzate le storie solo di due psicologhe e una educatrice professionale, provenienti tutte e tre dall’ Associazione Modelli si Nasce. Leggere i loro racconti ha messo in evidenza un aspetto a mio avviso importante: il lato emotivo dei curanti celato dietro la maschera della professionalità a cui bisogna dare voce per poter trovare il giusto connubio nella relazione paziente- professionista.
Quali risultati sono emersi e come intendi portare avanti il lavoro che hai fatto?
Analizzando tutte le narrazioni dei genitori, sono emersi elementi comuni nel racconto delle mamme, che si discostano invece dal modo di raccontare dei papà. A partire dalle stesse parole, ricorrenti nelle narrazioni di entrambi i genitori, si è visto che dai racconti delle mamme è emersa in maniera dominante la parola: “bambino”, “figlio”, “bimbo”, insieme alla parola “non “ “prima”, “dopo”, “era”, “come” , termini che descrivono il rapporto che hanno queste donne con la condizione autistica. Il prima e il dopo segnano proprio la caratteristica delle loro storie che descrivono il susseguirsi degli eventi dalla vita di prima, alla riorganizzazione della seconda vita.

Una seconda vita ottenuta con la lucidità, la consapevolezza, il rimboccarsi delle maniche di queste madri che hanno preso in mano la situazione. Questo passaggio emerge nell’analisi anche delle emozioni , si passa dall’angoscia alla fiducia, dalla accettazione alla serenità.

Dai racconti dei papà invece, la parola che emerge spesso è: “vita”, seguita da “figlio”, “coppia”, “quotidiana”. Le loro storie non si soffermano sugli accadimenti, l’attenzione è alla vita di prima , al figlio ma in maniera diversa rispetto alla madre. Il termine “non” dei papà è relegato tra le altre parole, ha il significato della negazione piuttosto che del “non mi arrendo” delle mamme.

Gli elementi comuni possono essere rintracciati nella presenza di una restitution (restituzione) in tutte le storie, ognuno in maniera diversa trova le strategie per evolvere verso un futuro che in un papà, è affidato anche alla fede, ad un’altra dimensione.
Un altro tema emerso è stata la mancanza di supporto soprattutto emotivo: queste mamme, infatti, hanno parlato di come si sono sentite sole, inascoltate e scarsamente supportate sia dal partner, sia dai professionisti e dalla comunità, evidenti infatti sono i rimandi al pregiudizio, allo stigma sociale nei confronti di questa condizione.

Dall’analisi delle tre storie dei professionisti, pur essendo pochissime come campione analizzato, emerge una differenza tra le professioni. Le parole dominanti sono: “esperienza”, “ragazzi”, “autismo”, “famiglie”, “frustrazione”, “passione”, che riconducono alla professione, alla condizione autistica, ma sempre da un punto di vista di esperienza professionale. Cio’ si evince in particolare in due storie, dove la passione per il proprio lavoro è espressa attraverso termini come “competenza”, “formazione”. In una sola narrazione, l’esperienza lavorativa viene narrata non attraverso i canali cognitivi ma tramite le emozioni che diventano un fardello tale, da influenzare il percorso lavorativo; mostrano la difficoltà di questa curante, nella impostazione di una giusta distanza paziente/operatore. Diventa fondamentale pertanto , la co-costruzione in un percorso terapeutico che comporta l’attenzione al paziente nella sua interezza, ma anche al suo curante.
C’è un messaggio che vuoi lanciare verso i tuoi colleghi e colleghe?
Vorrei che ognuno sviluppasse la capacità di guardare “oltre” ciò che appare, che prendesse in considerazione quanto complessa sia la cura e il prendersi cura e di come sia importante avere quelle meta-competenze necessarie per instaurare una “umana” relazione tra curante e curato.