Sara Cantù, infermiera professionale, counselor psicobiologico, naturopata, lavora da vent’anni in una Casa per Anziani in Svizzera. Ha deciso di partecipare a un master in medicina narrativa dal quale è scaturito un progetto molto intenso, svolto nel luogo in cui lavora e dedicato a chi assiste, come lei, le persone anziane fino all’ultimo istante di vita: come si vivono questi momenti da professionista? Cosa si prova dopo che la persona non c’è più?
Domande importanti che aiutano i professionisti a confrontarsi su un tema, la morte, che si tende a marginalizzare, perché fa paura e perché non si sa come affrontarlo. La medicina narrativa aiuta i professionisti sanitari a comprendere meglio la loro professione, tutti i risvolti del loro lavoro, a fare i conti con la quotidianità, con le emozioni che arrivano all’improvviso e improvvisamente cambiano. La medicina narrativa aiuta a riflettere sul proprio percorso, ma pretende tempo: tempo per pensare, per scrivere e per riflettere su quanto prodotto. La scrittura ha un valore quasi terapeutico, tira fuori essenze di noi che non credevamo possibili, fa emergere lati nascosti, trova soluzioni, traccia percorsi. Non è mai fine a se stessa, ma strumento indispensabile per migliorarsi come persone e come professionisti sanitari.
Sara ha sentito l’esigenza di chiedere ai suoi colleghi cosa significasse avere a che fare con la morte ogni singolo giorno della loro vita professionale. un aspetto della professione su cui non ci so sofferma abbastanza.
Ha raccolto le testimonianze scritte dei suoi colleghi e ciò che è emerso è stato sorprendente anche per lei. In questa intervista ci racconta il suo progetto
Sara, parlami di questa professione

Giovanissima, prendo il diploma di Infermiera professionale e inizio a lavorare all’Ospedale di Busto Arsizio (Va), nel reparto di ostetricia e ginecologia, per poi specializzarmi in strumentista di sala operatoria.
Trascorro circa 15 anni a Busto e quando decido di abbandonare la città, per andare a vivere in montagna, trovo lavoro in Svizzera (Canton Ticino) presso una piccola Casa per Anziani (CPA).
Il lavoro in casa anziani appare inizialmente poco stimolante e accattivante dal punto di vista professionale, ma con il tempo e la pazienza ho imparato a capire l’importanza del contatto diretto con persone sole e cronicamente malate.
L’anno prossimo “compirò” i 20 anni in questa piccola realtà in cui ormai mi sento come a casa.
I ritmi di marcia all’interno di una residenza per anziani sono molto più lenti rispetto a quelli di un ospedale, la routine e la “noia” sono realtà tangibili nella quotidianità della CPA, e spesso anche i curanti sembrano adagiarsi a questo molle procedere.
Negli anni ho perfettamente capito come i nostri anziani hanno bisogno di cure, ma soprattutto di calma e serenità, di “coccole” e calore umano.
Di che cosa hai deciso di occuparti in questo progetto di Medicina Narrativa?

Noi operatori sanitari, lavorando in CPA, entriamo spesso in contatto con la morte, con la dipartita, a volte improvvisa, dell’ospite. Se da un lato si fa l’abitudine alla morte, dall’altro essa stupisce sempre, sorprende sempre.
Dunque il project work per il master tratta di “fine vita”, ed è inerente a come ciascun operatore si sente quando deve assistere il paziente negli attimi finali e dopo la sua dipartita.
Non si parla mai della morte, né ci si confronta riguardo questo tema, quasi fosse innominabile e troppo intimo per esporsi e confrontarsi.
Con il lavoro di Medicina Narrativa ho voluto proporre ai colleghi una riflessione libera e molto aperta sul tema “fine vita” per indurre un inedito dialogo all’interno dell’equipe.
Nella traccia narrativa chiedevo di raccontare episodi vissuti in prima persona in rapporto alla morte e di immedesimarsi nel morente cercando di dire ciò che in quel momento lui stesso poteva pensare; ho poi domandato di definire con sole 5 parole la “morte”.
L’operatore nella casa per anziani, qualunque sia il suo ruolo, è un “produttore “ di azioni, un esperto del “ fare” che raramente si concede il tempo per riflettere sul suo agire e sui percorsi, anche molto personali, che il cammino professionale inevitabilmente gli presenta.
Come è stato il momento della raccolta delle narrazioni?

Mi sono chiesta e ho voluto domandare a che significati rimandi questa visione diretta e assidua con la morte, che cosa si “portano a casa” i colleghi che toccano con mano la “realtà ultima”.
La morte in casa per anziani non è qualcosa di lontano e aleatorio, ma si fa viva presenza che compenetra il reale e il vissuto di tutte le figure coinvolte nell’evento.
Ho creduto fortemente sin dall’inizio in questo progetto di Medicina Narrativa e con grande entusiasmo ho sottoposto ai miei colleghi la traccia narrativa riguardante il “fine vita”, ma devo dire, con sommo dispiacere, che in molti non hanno compreso la valenza e i possibili vantaggi di questa indagine.
Il primo aspetto che mi ha colpito, quando ho proposto il lavoro narrativo, è inerente alla remora di molti a raccontare qualcosa di profondo, il timore di esporsi, di essere “scoperti”, la dichiarata, in alcuni casi, incapacità, o semplicemente non voglia, di creare una connessione tra il proprio vissuto esteriore e la propria ad esso relativa realtà interiore.
Mettere a nudo “l’ultimo sentire” è cosa inusuale in un mondo che sopravvive all’insegna del materialismo, della corsa al successo personale e al potere del singolo, disdegnando, per contro, orizzonti più ampi che comprendano il “bene comune” e la crescita di un gruppo omnicomprensivo.
Mi rendo perfettamente conto che le “novità” spesso in un primo momento possono destabilizzare, scuotere violentemente e non tutti sono così pronti ad affrontare nuove modalità di lettura e di approccio del sé e della realtà in cui vivono.
Comunque la reazione e il prodotto di chi si è reso disponibile a questo tipo di indagine sono stati sorprendenti, dimostrando grande entusiasmo e grande “cuore”, mettendo in evidenza che la cura non è solo un “saper fare”, ma anche e soprattutto un “saper essere”.
Su circa 40 persone ho raccolto una dozzina di narrazioni (alcune sono arrivate poi in ritardo) e molti mi hanno detto che non avrebbero partecipato perché non sono in grado di descrive le proprie emozioni, o non sono semplicemente in grado di scrivere o non vogliono dire la loro per paura di esporsi, oppure non vogliono perché non hanno tempo.
Oltre a sentirmi stupita per le risposte scritte ricevute, data la loro profondità e intensità, grazie a questo lavoro ho potuto rendermi conto di come la maggior parte delle persone crei ad hoc una barriera tra il proprio vissuto professionale e la propria sfera emozionale, una sorta di protezione che delimita nettamente il vissuto dentro e fuori la CPA.
Il chiedere di fondere, per un attimo, i due aspetti ha in molti generato destabilizzazione e sconcerto.
Questa esperienza è sicuramente servita a conoscere lati dell’essere umano che prima d’ora non avevo mai preso in considerazione; d’altro canto la piccola “massa critica” che ha aderito al progetto mi ha fatto comprendere come non sono poche le colleghe che hanno apprezzato questo lavoro di auto riflessione personale.
Quali risultati sono emersi e come intendi portare avanti questo progetto?
Da questo lavoro emerge che “il fine vita” rappresenta per molti un momento cruciale della relazione “curante-paziente”, un attimo fugace ,ma che segna il vissuto di entrambi in modo indelebile.
Grazie a questo lavoro, paradossalmente posso ora affermare che il “non detto” risulta essere assai più esplicito del “detto”; ho visto ritratte molto chiaramente sul viso dei colleghi tutta la vasta gamma emotiva possibile, tutte le colorazioni conosciute dell’anima; le ho viste succedersi, alternarsi, a volte sommarsi.
C’è però bisogno di un’educazione alla morte, è necessario, soprattutto con i giovani, parlare di morte e quindi di mettere in compartecipazione il proprio vissuto e la propria esperienza personale.
Come è percepita la morte tra i tuoi colleghi che hanno partecipato al progetto?
Il fine vita non è percepito dai più come fatto negativo e tragico, infatti molti parlano al riguardo di “liberazione, passaggio, condizione universale che lega e accomuna,” etc.
Emerge anche molto chiaramente dalle narrazioni una percezione del momento ultimo quale attimo fugace di stretto ed intenso legame con chi se ne va, uno scorcio sublime di rapporto, di scambio vicendevole che unisce il curante al morente.
Alcuni estratti dalle narrazioni:
“..era il nostro nonno,…il nostro confidente, ci ha lasciati in un pomeriggio d’inverno senza disturbare nessuno,…se n’è andato in punti di piedi come era arrivato…quando ci penso i miei occhi si riempiono di acqua..sarà un pensiero egoistico, ma mi immaginavo di assisterlo ancora per diversi anni”.
“lui nel fine vita ha svelato il suo lato più fragile, indifeso, che suscita desiderio di accudimento, ma anche un senso di inquietudine difficile da gestire”.
Dalle parole emerge chiaro anche il concetto che la morte è l’ ultimo respiro di “un altro da noi “che deve, o dovrebbe essere, vissuto come un sentito momento di condivisione personale.
Il tema dell’universalità della morte ricorre in molti scritti, mettendo in luce la prospettiva positiva del farsi carico del trapasso anche e soprattutto di chi non conosciamo.
Altro passaggio chiave della traccia narrativa riguarda una riflessione circa una frase dell’editore e umanista francese Henri Estienne che dice: “ Se gioventù sapesse, se vecchiaia potesse”; l’ho inserita per stimolare un riscontro che prevede il confronto tra il giovane e in salute operatore sanitario e “ l’oggetto” della sua cura che si trova invece a vivere ormai ai margini della vita terrena.
Riporto, a tal proposito, le intense parole di un’infermiera che ci fa partecipi delle sue riflessioni in relazione alla vecchiaia e al fine vita:
“L’anziano e l’umiltà che l’esistenza gli ha imposto mi hanno insegnato molto negli anni, e la rassegnata dolcezza con cui gli “agèe” si affidano alle mie mani, m’investono di un senso di responsabilità unica che trascende l’atto tecnico, il dovuto. Il “vecchio” cede, si lascia andare rassegnato, e si aspetta che braccia energiche lo sostengano perché così dovrebbe essere il naturale percorso; è infatti sempre stato nell’ordine delle dinamiche esistenziali il fatto di appartenere ad una solida e capace famiglia che riverisca il più attempato, lo coccoli e lo vegli in ogni attimo con rispetto, ed invece del “nonno” moderno ci si vuole disfare in fretta perché considerato ormai improduttivo ed incapace. Se quel vecchio potesse trovare le parole giuste e il filo di voce indispensabile per dire che quelle mani ossute e tremolanti sono le nostre, che quelle occhiaie profonde e rugose sono le nostre, che quella voce senza più suono ed energia fra poco sarà la nostra voce”.

C’è un messaggio che vuoi lanciare?
Nell’ambito in cui lavoro è già attivo un progetto molto accurato di cure palliative e assistenza programmata durante il fine vita, e dunque intendo esporre ai colleghi le cifre del mio lavoro con l’intento di integrare le conoscenze e le visioni personali circa la morte, onde promuovere una sempre migliore assistenza.
Vorrei continuare a proporre progetti narrativi nel piccolo spazio in cui lavoro perché, a mio avviso, c’è molto bisogno di fare comprendere che narrare se stessi significa avvicinare tutte le sfere, spesso disgiunte, che ci compongono e, tramite questo potente mezzo, che è il parlare di sé con sé e con gli altri, si potrebbe capire anche come ognuno di noi non è un’isola, ma è parte di una comunità di persone che condividono gli stessi valori, le stesse paure, le stesse emozioni, aspettative e sentimenti.
Solo assecondando un’ottica così omnicomprensiva è possibile garantire e creare un ambiente di lavoro sano e disponibile, solo così è possibile elargire cure d’eccellenza.