Giulia Panizza, fin dai suoi primi mesi di vita, ha avuto a che fare con il neuroblastoma, un tumore raro che ha segnato profondamente l’infanzia e l’adolescenza, e oggi aleggia nella sua vita come uno spettro.
Oggi è una donna ed una splendida mamma, nonostante il neuroblastoma.
La sua è una storia forte, ricca di spunti di riflessione e di speranza, attraverso la quale vuol lanciare un messaggio importante: la maternità per chi soffre di una patologia come la sua, non è una semplice eventualità ma una realtà ed è per questo che è necessario che vengano predisposte misure di sostegno affinché sia garantito a tutte il diritto di poter scegliere di essere madri, nonostante la malattia.

Giulia con il marito, Alessandro
Giulia è una giovane mamma di uno splendido bambino di cinque anni che, con la sua vivacità, riempie le sue giornate di entusiasmo e di gioia di vivere, la stessa che le ha permesso di combattere e sconfiggere il neuroblastoma che l’ha colpita nei primissimi mesi di vita.
Si tratta del tumore più comune della prima infanzia (circa il 7-10% dei tumori nei bambini di età compresa tra 0 e 5 anni) e il più frequente tumore solido extracranico in età pediatrica. L’età media di diagnosi è 18 mesi e il 90% dei casi è diagnosticato prima del sesto anno di vita.
Giulia si definisce una “lungo sopravvissuta”, una delle poche persone ad essere andata oltre le statistiche di vita di medici e specialisti.
È una donna forte, sensibile e generosa, impegnata attivamente nel sociale e che, nonostante lo spettro minaccioso della malattia che le cammina sempre accanto, si spende senza risparmiare nulla di sé per gli altri.
Quando hai scoperto la tua malattia?
“Avevo appena cinque mesi quando mi sono ammalata.
Il mio pediatra ed i miei genitori si sono accorti che qualcosa non andava perché nelle settimane precedenti alla diagnosi avevo cominciato a non stare bene e ad avere inappetenza.
C’erano questi pianti sempre più lunghi e disperati ai quali è subentrata una situazione che ha fatto scattare il campanello di allarme, avendo completamente perso l’uso delle gambe ed essendo comparsa una piccola protuberanza a livello del midollo spinale.

Giulia da piccola
I miei familiari a quel punto sono immediatamente ricorsi alle cure dell’Istituto Giannina Gaslini di Genova, che è stato in seguito anche quello presso il quale sono stata seguita, dove mi è stata fatta una diagnosi di neuroblastoma con infiltrazioni nel canale midollare.
Nell’agosto del 1981 ho subito il primo intervento per la rimozione di una prima massa tumorale, che stava risalendo attraverso il canale spinale verso il cervello e nel novembre dello stesso anno ne ho fatto un secondo di laparatomia esplorativa, in quanto i sanitari hanno ritenuto necessario accertarsi che non ci fossero ulteriori metastasi.
Da lì in avanti, ho fatto dei cicli periodici di chemioterapia, trattamenti che si sono protratti per circa due anni, un periodo al termine del quale ho cominciato la riabilitazione per ripristinare la funzionalità degli arti inferiori “.
Com’è stata la tua infanzia?
“I controlli clinici sono proseguiti per i primi sei anni della mia vita, anni di cui non ho ricordi così definiti, se non dei suoni e degli odori percepiti durante le degenze di quei ripetuti controlli.
I reparti pediatrici di oggi sono organizzati in modo molto diverso rispetto a oltre 40 anni fa, sia dal punto di vista degli spazi sia dei servizi, che oggi vendono anche un gradissimo e preziosissimo supporto da parte delle varie associazioni di volontariato che si sono via via costituite negli anni.
Talvolta mi è capitato di assistere a situazioni molto difficili anche solo da vedere per un bambino, in attesa di effettuare magari gli stessi controlli per i quali anche io mi ero recata in ospedale.
Ho iniziato ad avere consapevolezza di ciò che mi era capitato intorno ai primi anni della scuola elementare quando, dovendo sottopormi con cadenza più diluita agli esami di routine, ho cominciato a fare domande del perché io facessi tutti quei controlli, che invece non sentivo fare ai miei compagni di scuola.
È stato allora che consigliarono ai miei genitori di non nascondermi la verità.
Sicuramente la modalità con la quale mi è stato raccontato quanto mi era accaduto non è stata delle migliori.
Credo sianecessario inquadrare il contesto storico in cui io ho vissuto la malattia, un periodo nel quale si aveva quasi timore persino a pronunciare la parola “tumore”, lo si diceva a bassa voce, definendolo “brutto male”, poiché equivaleva più ad una condanna che ad una diagnosi.
L’approccio nella comunicazione è stato molto “basico” e nel mio specifico caso non ha tenuto conto della mia in-capacità bambina di recepire la situazione. Ed è stato proprio quando ho preso coscienza della differenza che c’era tra me e gli altri, che è cominciata la fase sicuramente più dura della mia vita”.
Questa consapevolezza come ti ha cambiata nel rapporto con te stessa e con gli altri?
“Sono sempre stata una bambina molto sensibile, era una caratteristica che avevano riscontrato tutti intorno a me, una sorta di propensione naturale ad aiutare le persone che vedevo in difficoltà.
Alle elementari, ad esempio, avevo un compagno con la sindrome di down e, nonostante la mia fosse stata una delle prime classi nella quale si parlava di inclusione sociale, all’inizio non c’erano molti bambini che volessero stare con lui. Stava quindi spesso con me, si sedeva al mio banco, facevamo anche un pezzo di strada insieme per andare e tornare da scuola.
Succedeva anche che durante la ricreazione offrivo il mio aiuto alle compagne di classe che, al contrario di me, che sono stata sempre molto portata per gli studi, incontravano grandi difficoltà a fare i compiti che ci assegnavano le maestre.
Ho sempre sentito da dentro la predisposizione a dare una mano a chi avesse dei problemi e, quando ho preso consapevolezza della mia malattia, è stato come se questo mio modo di essere avesse trovato la sua spiegazione naturale, perché, anche se inconsciamente, avevo sperimentato sulla mia stessa pelle il dolore e sapevo bene cosa volesse dire lottare per la vita.
Ho subito interventi importanti, ho fatto delle cure molto pesanti, ma benché fossi così piccola, avevo dimostrato una grandissima resistenza e voglia di vivere e questa è una cosa che ho sempre sentito molto forte dentro di me, malgrado le numerose difficoltà che ho dovuto affrontare.
È stato però il momento della consapevolezza a segnare la fine della spensieratezza, un concetto che, a tutt’oggi, faccio davvero tanta fatica a comprendere.
Mentre le mie coetanee affrontavano le problematiche tipiche di quell’età, a me quelle sono sempre sembrate delle cose un po’ banali, delle sciocchezze. Io invece andavo sempre alla ricerca di grandi motivazioni, di grandi valori, di temi di spessore, per cui battermi.
La leggerezza è qualcosa che ho sempre cercato, mettendo in pratica una serie di meccanismi molto razionali per cercare di superare il dolore, la paura, la diversità, creandomi artificialmente delle situazioni che potessero creare un punto di incontro con “l’altro”, sentendomi tuttavia sempre altrove, come “fuori luogo”.
C’è da dire anche che ho vissuto quel periodo della mia vita in una maniera, se vogliamo, molto empirica, perché la grande differenza nell’ammalarsi da bambino piuttosto che da adulto, sta proprio nel fatto che a quell’età si è completamente privi di strumenti per affrontare queste cose.
Il mio vissuto, il modo con cui sto parlando oggi della mia malattia, è frutto di un percorso che ho affrontato da bambina, da adolescente, da giovane donna e da mamma.
La neoplasia ha accompagnato tute le varie fasi della mia vita, e continua a farlo, fosse anche solo come spettro”.
Ti è mancata quella leggerezza di cui parli?
“Non avendola mai conosciuta, mi è difficile parlarne. Probabilmente mi è fortemente mancata in una parte della mia vita, soprattutto da ragazzina. Crescendo, la scala dei valori cambia e si dà importanza ad altre cose.
Mi è capitato talvolta di parlarne anche con il mio sacerdote, a cui ho confidato quanto mi sarebbe piaciuto in quegli anni avere meno consapevolezza e più spensieratezza.
Tutti mi dicevano che ero una bambina matura, così seria ed affidabile, elogi che in parte mi lusingavano ma che sentivo essere anche una zavorra.
Si, devo ammetterlo, probabilmente la leggerezza mi è mancata, più di quanto io stessa possa immaginare”.
Quanto ti sono pesati gli “elogi” della gente e cosa avresti voluto invece sentirti dire?
“Avrei voluto che qualcuno mi dicesse, come si fa con i bambini, che sarebbe andato tutto bene, che avremmo superato quei brutti momenti e che insieme ce l’avremo fatta, perché nella malattia può, e deve esserci, il tempo delle risate e della spensieratezza, una circostanza che non deve avere sempre la connotazione del combattere. Purtroppo, com’è mancato a me un accompagnamento psicologico a quello che stavo vivendo, è mancata più in generale una capacità di sapermi “accogliere” nell’intero contesto sociale in cui ho vissuto.
Nessuno era preparato, i miei insegnanti, i miei compagni di scuola. Non lo erano nemmeno il mio pediatra o il mio attuale medico di medicina generale, per il quale a tutt’oggi sono l’unica paziente ad aver avuto un trascorso di neuroblastoma.
Le varie associazioni che sono state create negli anni hanno permesso a tutti di conoscere determinate tematiche per saperle anche affrontare meglio, saper accompagnare, accogliere le persone con un trascorso di questo tipo.
Quando ero bambina non era così.
Erano poche le persone a sapere cosa avessi avuto, c’era un approccio sociale completamente diverso nei confronti della malattia.
Credo ci sia stata proprio un’incapacità generale di rapportarsi al diverso.
A quel tempo nell’ambito oncologico si lottava quasi esclusivamente per la salvezza e tutto ciò che riguardava il “dopo” era una realtà ancora tutta da scrivere”.
Ti spaventa lo spettro che ti accompagna da sempre?
“Mi spaventano molto soprattutto gli esiti a lungo termine, di cui ho piena consapevolezza perché nel 2015 sono entrata a far parte di un Progetto pilota dell’ospedale Gaslini, che è stato aggiornato proprio l’anno scorso, il ”Survivor Passport”, uno strumento utilissimo che raccoglie tutta la storia clinica della neoplasia di cui è affetto il paziente e tutti i trattamenti terapeutici a cui si è stati sottoposti. Un documento che contiene oltretutto prospetti su quelli che sono gli studi attualmente disponibili e degli eventuali danni a lungo termine che potrebbero verificarsi.
Cerco ogni giorno di affrontare la mia vita come posso, con gli strumenti che ho, anche se, certo è una paura che aleggia su di me, che ogni tanto provo a dimenticare, ma che mi cammina a fianco. Ed essendo diventata mamma ovviamente questa cosa mi preoccupa più per quelli che potrebbero essere gli esiti su mio figlio che non su di me.
Parlami di te come donna e mamma
“Dopo gli anni dell’adolescenza, che sono stati in effetti abbastanza complicati perché ho dovuto affrontare altri due interventi molto invasivi per l’asportazione di altre masse che erano state trovate e che temevano potessero essere delle recidive. Intorno ai vent’anni ho raggiunto una sorta di punto di equilibrio, in particolare quando ho intrapreso gli studi universitari, in una facoltà che ho amato tantissimo. Sono stati decisamente degli anni splendidi quelli, nei quali sono anche riuscita a ritrovarmi come donna, dedicando del tempo a prendermi cura del mio corpo, cambiando il mio stile alimentare e dedicando più tempo all’attività fisica.

Giulia, Alessandro e il piccolo Riccardo
La maternità è stata da una parte una grandissima gioia ma anche una situazione assolutamente molto pesante da sostenere, a cominciare dalla gravidanza e dal parto. Il mio bimbo è nato con un parto cesareo programmato effettuato in anestesia totale e, all’incirca una decina di giorni dopo, mi sono accorta di avere completamente perso l’uso di entrambe le braccia.
Il sospetto era che potesse trattarsi di un tumore a livello del collo oppure di sclerosi multipla, ma fortunatamente furono escluse entrambe. La causa di quel malessere era legata alla sindrome del tunnel carpale bilaterale gravissima, che ho a tutt’oggi e che dovrebbe comunque essere trattata con un intervento chirurgico, non essendoci possibilità di regressione.
Questa situazione di grave handicap mi ha portato a dovermi rivolgere a delle infermiere pediatriche affinché mi aiutassero a prendermi cura del mio bimbo, non essendo assolutamente in grado di occuparmene da sola.
Quando Riccardo ha compiuto nove mesi ho ripreso a lavorare e sono attualmente impiegata full time.
La condizione di mamma e lavoratrice è certamente impegnativa per qualsiasi donna, ma per una persona con un trascorso come il mio la situazione è sicuramente più complessa. Mi è stata riconosciuta un’invalidità del 67% che tuttavia non mi dà diritto sostanzialmente a nulla, al di là della possibilità di essermi potuta iscrivere alle liste riservate alle categorie protette previste dal “collocamento obbligatorio”.
Per quanto riguarda le necessità di gestione della casa e della cura di mio figlio un grande carico di lavoro è sostenuto da mio marito, che però anche lui lavora full time ed è sostanzialmente il “care giver” di nostro figlio e mio, senza che ciò gli sia ovviamente riconosciuto.
Mentre le altre coppie possono contare infatti vicendevolmente l’uno sulle forze dell’altra, nella nostra quotidianità, è lui a farsi carico di gestire gran parte del ménage familiare.
La normativa vigente non riconosce la condizione del “genitore invalido/disabile” e quindi non ha mai predisposto nulla a supporto di tale condizione.
Questo secondo me è uno di quei temi sui quali bisognerebbe ragionare per cominciare ad intervenire legislativamente, prendendo in considerazione anche la possibilità che una persona con una patologia invalidante come la mia, possa diventare genitore, perché escludere aprioristicamente anche la semplice eventualità che ciò possa realmente accadere, preclude la strada di predisporre misure adeguate di supporto a tali situazioni. Questo è un argomento che mi sta particolarmente a cuore, intorno al quale vorrei che si creassero dei dibattiti su larghissima scala, in quanto ritengo sia un argomento che coinvolge varie disabilità”.
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Il Progetto Sant’Anna Life Care, del quale Giulia è promotrice, nasce proprio dalla sua esperienza così complicata, vissuta sia in gravidanza, sia a seguito della nascita del suo bambino.
Lo ha ideato insieme ad un gruppo di amiche, professioniste in ambito sanitario che prevede un sistema molto articolato di servizi, che intende coprire aspetti sanitari e sociali, sia in contesti fisiologici che clinicamente complessi. Un progetto, valutato positivamente dalla commissione del bando Start & Growth di Filse s.p.a. (Regione Liguria), che stenta tuttavia a trovare quel sostegno politico e istituzionale necessario per la sua messa in atto.
“I nostri figli nascono con un debito economico enorme sulle spalle, in una nazione vecchia, che non investe nel domani. L’unico modo per cambiare questa rotta sarebbe concentrare le forze su progetti, che prima di ogni altra cosa valorizzino la donna, permettendole di avere figli e non rinunciare, se non per loro scelta, alle proprie aspirazioni professionali, in qualsiasi campo”
Giulia oltretutto si batte anche affinché il concetto del “diritto all’oblio”, venga ulteriormente esteso, in quanto a suo parere dovrebbe andare di pari passo al “diritto di non essere dimenticati”.
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In che modo spiegherai a Riccardo il tuo vissuto?
“Ho delle cicatrici molto evidenti sulla pancia, una di queste mi taglia l’addome, da parte a parte e un’altra che mi percorre tutta la colonna vertebrale. Sono segni molto evidenti che non possono passare inosservati.
Il mio bambino sta iniziando a rendersi conto che in tante cose la sua mamma è diversa dalle altre, essendo sempre accompagnata e che può fare davvero poche cose.
A livello fisico, da un anno a questa parte non sono neanche più in grado di prenderlo in braccio, lo faccio da seduta, ma anche così facendo ho una discreta difficoltà, perché ormai è diventato troppo pesante per me, che ho importanti difficoltà di postura e anche, in parte, di deambulazione.
Riccardo è un bambino sano, robusto e molto forte, proprio come il suo papà e questa è una cosa che mi riempie di gioia. Ha una forza ed un’energia che per me sono, insieme alla leggerezza, qualcosa di veramente sconosciuto.
Sa che la sua mamma quando era piccola, ha combattuto una grande battaglia e che è perciò una sorta di lottatrice che deve continuamente darsi da fare e faticare nono poco, per fare quello che le altre mamme fanno con tanta facilità.
Mi sono spesso interrogata su come avrei voluto che fosse.
Ho sempre cercato delle strade alternative, come del resto ho fatto per tutta la vita, per riuscire ugualmente a fare quello che facevano gli altri.
Ho sempre dovuto trovare la mia strada per fare in modo di poterlo accudire.
Quel confronto con l’altro che mi è tanto mancato negli anni giovanili è diventato negli ultimi anni una parte fondamentale della mia vita attraverso il volontariato, in cui sia io sia mio marito siamo impegnati e vorremmo, appena sarà possibile, coinvolgere anche Riccardo in questa esperienza, in maniera tale che possa comprendere che ci sono delle persone che sono state più sfortunate e che hanno bisogno del nostro supporto, per ciò che possiamo fare e che siamo in grado di dare.
Da un paio di anni ho scelto di raccontare la mia storia a favore dell’Associazione Italiana per la Lotta al Neuroblastoma, per sottolineare l’importanza della ricerca scientifica e portare un messaggio di speranza a chi si trova oggi ad affrontare questa terribile esperienza.
Sostenere la ricerca significa dare una concreta possibilità di guarigione ai bambini e far sì che, attraverso cure sempre più mirate e sempre meno invasive, la loro vita possa poi proseguire al meglio possibile: questo obiettivo mi coinvolge profondamente e cercherò di impegnarmi al massimo delle mie capacità per supportarlo.
Com’è stato l’incontro con tuo marito e la scoperta della maternità?
“Non è stato facile trovare chi non si spaventa dinanzi alle mie fragilità e di quello che queste avrebbero potuto comportare nel corso degli anni.
È stato un lungo cammino trovare l’amore.
Mi piace sempre fare una battuta in questi casi, perché mio marito Alessandro è un carabiniere ed il motto dell’Arma è “nei secoli fedele”: insomma, confidando in questo motto, diciamo che non è stato facile, ma alla fine non avrei mai potuto chiedere di meglio.
Benché fossimo e tuttora siamo due persone molto diverse, ci legano fondamentali elementi che abbiamo in comune, uno dei quali è l’attenzione verso l’altro.
Quando ci siamo conosciuti Alessandro era volontario in una delle associazioni attive all’interno dell’Istituto Gaslini e quando gli ho parlato di me, c’è stata da subito un’incredibile comunione ed una reciproca comprensione che avevo trovato pochissime volte nella vita.
È stata proprio questa la scintilla che ha fatto scattare in noi il desiderio di approfondire la conoscenza.
Nel 2015, poco prima che ci sposassimo, fui contattata dal Gaslini per partecipare al progetto pilota “Survival Passport”. In quella circostanza mi fecero fare una serie di esami, tra cui anche quello della fertilità, dai quali emerse la possibilità che potessi essere dichiarata sterile.
Alessandro è venuto a fare queste visite insieme a me ed è stato ovviamente messo a conoscenza della situazione, ma anche davanti a tutto questo non ha voluto tirarsi indietro.
Siamo andati avanti, ci siamo sposati “affidandoci” e credendo nel nostro amore: al nostro primo anniversario di matrimonio io ero già al quinto mese di gravidanza.
Immagino tu abbia fatto resistenza prima di lasciarti andare al suo corteggiamento
“Ci siamo conosciuti nel modo più classico, attraverso amici comuni e sono rimasta immediatamente colpita dalla sua sensibilità, la sua bontà, dalla sua attenzione nei confronti dell’altro.
Devo però dire che, prima di conoscerlo, avevo compiuto un cammino interiore molto importante.
Negli anni mi era infatti capitato più volte di fare delle amicizie che tuttavia si fermavano ancor prima di andare oltre la semplice conoscenza. Si trattava sempre di situazioni, come dire, molto estemporanee, molto superficiali, in quanto, quando poi la situazione avrebbe potuto diventare qualcosa di più importante tutti si tiravano sempre indietro.
Vivevo male questa condizione, me ne facevo una colpa, pensando fossi io quella sbagliata, ma mi resi presto conto di non essere effettivamente consapevole del mio valore, una convinzione profondamente sbagliata, ma quasi inevitabile frutto degli eventi che avevo dovuto affrontare nella mia vita.
Quando ho conosciuto Alessandro avevo compiuto questo cammino di consapevolezza; quindi, sapevo benissimo chi fossi e che cosa volevo e molto semplicemente mi sono trovata davanti una persona nella mia stessa condizione, poiché anche lui sapeva chi era e che cosa voleva.
Ha capito da subito che voleva me accanto. Non c’è stato perciò alcun bisogno di tante parole e di lunghe attese”.
Cosa senti di consigliare a chi si trova in una situazione simile alla tua?
“Chi ha affrontato determinate prove nella vita, a combattere per la propria salvezza, non lo dimentica, è qualcosa che probabilmente ti rimane dentro per sempre.
Una consapevolezza questa, a cui sono dovuta arrivare attraverso un cammino, a volte molto doloroso, soprattutto durante gli anni della prima infanzia e dell’adolescenza, perché mi mancavano gli strumenti per poterlo comprendere e gestire da un punto di vista psicologico.
Poter contare su un sostegno di questo tipo credo sia fondamentale e, nel caso di un piccolo paziente, sarebbe opportuno che fosse esteso anche a tutta la famiglia, perché, ahimè, quando si ammala un bambino si ammalano inevitabilmente tutti i componenti del nucleo familiare.
A volte anche le parole possono cambiare le sorti di un destino che sembra essere segnato e invece poi non lo è. So di avere dentro anche tantissima rabbia per quello che mi è capitato e con cui ho fatto i conti tante volte. La rabbia è qualcosa di estremamente energico e se si riesce a dirottare quest’energia nel modo giusto, può essere un grande motore per realizzare i propri sogni.
Ciò che si impara a proprie spese, facendo spesso del male a sé stessi, potrebbe secondo me essere evitato se si potesse contare su un accompagnamento, che in questo senso può fare realmente la differenza”.
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