Anche solo immaginare di avere il Parkinson da giovani, perché si hanno uno, due o dieci dei tanti sintomi che possono far pensare a questa malattia prevalentemente geriatrica, è molto difficile. Non è un pensiero semplice, lineare, diretto, nemmeno per uno specialista. Eppure il Parkinson colpisce moltissime persone giovani, con una diagnosi inaspettata e dirompente, ma soprattutto difficile da stabilire. Ne abbiamo parlato con una giovane paziente, Alessandra (nome di fantasia) che ha scoperto il Parkinson a 46 anni.
- Che cos’è la malattia di Parkinson?
- Ammalarsi di Parkinson a 46 anni
- Come ha scoperto di avere il Parkinson?
- Quali sensazioni ha provato al momento della diagnosi?
- Com’è cambiata la vita quotidiana, familiare e quella affettiva?
- Quale cura sta seguendo?
- Quali sono le reali necessità di chi convive fin da giovane con una malattia come il Parkinson?
- Cosa si sente di dire a chi vive la sua stessa situazione?
Che cos’è la malattia di Parkinson?
Nel Parkinson, specifiche cellule del cervello smettono gradualmente di funzionare correttamente. Si tratta di cellule deputate alla produzione di una sostanza chimica chiamata dopamina, che consente la comunicazione tra le cellule cerebrali che controllano il movimento e il coordinamento delle diverse parti del corpo.
Con la perdita di dopamina si determina un rallentamento dell’invio dei messaggi provenienti dal cervello che servono a indicare al corpo come e quando muoversi. I sintomi della malattia quindi sono correlati a questa incapacità di controllare i muscoli e i movimenti e si raggruppano in quattro categorie principali:
- Tremore: ritmico e involontario quando si è a riposo.
- Rigidità muscolare: rigidità o scarsa flessibilità di arti o articolazioni.
- Bradicinesia/acinesia: movimenti rallentati/assenza di movimento.
- Alterazione dell’equilibrio (instabilità posturale) e dell’andatura.
Ammalarsi di Parkinson a 46 anni
La malattia di Parkinson è la seconda patologia neurodegenerativa più diffusa dopo l’Alzheimer. Nei Paesi industrializzati la sua incidenza è di circa 12/100.000 persone all’anno, con una prevalenza di circa 2 milioni di persone colpite dalla malattia. Il rischio di sviluppare il Parkinson aumenta con l’età e si stima che circa il 2% della popolazione sopra i 65 anni ne sia affetto. Si arriva al 4% oltre gli 85 anni. Si prevede che con l’aumento dell’aspettativa di vita, soprattutto in Paesi molto popolosi e in fase di sviluppo socio-economico (Cina, India, Brasile), la già elevata prevalenza della malattia sia destinata a crescere esponenzialmente nei prossimi anni, con un numero probabilmente raddoppiato nel 2030.
Benché la prevalenza aumenti progressivamente con l’età, ci sono sempre più casi in cui la malattia si manifesta prima dei 50 anni, ma anche prima dei 40. Fino a qualche anno fa, l’insorgenza al di sotto dei 50 anni era una eventualità abbastanza rara. Oggi, invece, anche se riguarda sempre in maggioranza gli anziani, l’età media di esordio della malattia ha subito un certo calo. Come ci racconta Alessandra, nome di fantasia di una donna di 46 anni che ha il Parkinson e vuole rimanere anonima.
“Io sono una totalmente anonima, madre di famiglia, separata da millenni, che non ha mai chiesto un centesimo all’ex marito, ma con un mutuo da pagare e un figlio di 20 anni che va all’università, sul quale provo a pesare il meno possibile. Ma “madre con il Parkinson che riesca a non pesare” è decisamente un ossimoro”.
Inizia così l’intervista con Alessandra, una donna di 46 anni, con una diagnosi di Parkinson arrivata, dopo non poche peripezie, nel 2018 e del suo compagno Maurizio.
Come ha scoperto di avere il Parkinson?
“Chiedere a una persona giovane come ha scoperto di avere il Parkinson si rischia di mettere paura alle persone, perché è una malattia che a questa età non viene proprio presa in considerazione ed è quello che è capitato a me.
Nel mio caso, è solo successo che, dopo averne valutate molte altre e avermi pure “curata” per tutt’altro, a un certo punto, ho iniziato a tremare di botto e un giorno, per caso (ma veramente), qualcuno ha pensato di rivalutare congetture già ampiamente date per sicure e certe e mi ha prescritto un DatScan per escludere la patologia e … invece … colpita e affondata. Il mio medico ha pensato all’inizio a un tremore essenziale, era convinto fosse quello, cioè un disturbo di origine non chiara di tipo psicologico o, addirittura, psichiatrico. In pratica, seguivo una terapia per altra roba, quindi ho preso medicinali specifici, non caramelle, per nulla. Dopo il risultato dell’esame, il medico mi ha cambiato subito la terapia, sostituendola con la levodopa. Ho fatto poi un altro DatScan di controllo e pure una scintigrafia da un altro neurologo. Perché dire che ha il Parkinson a una persona di 40 anni spaventa. Non poteva essere quello, potevano essere mille altre cose, che poi, però, non sono state.
Quindi: come l’ho scoperto? Stando male e purtroppo attraverso tantissime peripezie per avere una diagnosi. Il problema più grande è stato che nemmeno i medici ci credevano e hanno veramente pensato a tutto fuorché al Parkinson.
Quali sensazioni ha provato al momento della diagnosi?
La vera domanda è cosa provo ancora adesso, perché niente è stato ancora davvero digerito. Quando si riceve una diagnosi di Parkinson, la sola cosa certa è che non si sa esattamente di che cosa si stia parlando. Si pensa che sia una malattia “delle persone anziane”. Si fa fatica a crederlo. Più che altro, le domande più azzeccate da fare, almeno per quanto riguarda il mio vissuto, sono altre. Tipo: che cosa ha provato la mia famiglia e come sia cambiato, tangibilmente e improvvisamente, il loro modo di approcciarsi a me, perché questa diagnosi è seria e loro hanno veramente cambiato totalmente il modo di comportarsi con me: fino al giorno prima, ero solo io che, a 40 anni, non mi davo da fare abbastanza per affrontare i miei non meglio definiti “problemi di salute”. Poi sono diventata una persona con il Parkinson e questo ha cambiato il mondo. Questo è quello che mi ha colpito.
Com’è cambiata la vita quotidiana, familiare e quella affettiva?
All’inizio, quando la mia famiglia ha saputo che avevo il Parkinson, hanno tutti tirato un sospiro di sollievo. Almeno ora si poteva dare un nome concreto alle cose. Il problema, però è che, dopo 4 anni, ho dovuto decidere di non parlare più con mia madre né di come sto, né di questioni ‘tecniche’, diciamo, legate ai cambiamenti della terapia o ai confronti con il neurologo. Mi sono resa conto che passavo il mio tempo a giustificarle tutti i miei pensieri e a raccontarle tutto quello che mi capitava, sempre le stesse cose poi, non una versione nuova della vita tutte le volte e, alla fine, semplicemente non ne potevo più: ottenevo sempre e solo frasi di circostanza come risposta, ero io che sbagliavo ogni tipo di approccio alla malattia. La cosa peggiore è che mi trascinava in discussioni totalmente inutili che la mia malattia non mi permette più di affrontare senza rilanciarmi contro un boomerang fatto di giornate intere da affrontare ancora più in salita del solito, per riuscire a rimettere tutti i tasselli di nuovo al loro posto. Comunque, sempre meno equilibrata della volta precedente. Tutte cose che, ormai, avrebbe dovuto già sapere. Quindi, un giorno, le ho detto “non ti dico più niente”. Risultato: adesso parliamo molto cortesemente del tempo e va assolutamente bene così. Inoltre, non è nemmeno mai stata la persona che più avvicina al concetto di caregiver per me. Lo sono molto di più mio figlio, il ventenne, e il mio compagno.
Risponde anche Maurizio, il compagno di Alessandra: “Ti dirò, non l’ho ancora capito come è cambiata la vita. Come in tutte le cose, ci sono giorni più positivi e giorni un po’ meno, però tendenzialmente non noto grossi cambiamenti tra di noi. Ci siamo dovuti reinventare un po’, ma questo fa parte della natura delle cose e non ci sta impedendo di fare quello che vogliamo. Bisogna solo farlo in maniera differente, con tempi diversi. Ci sono cose a cui devi pensare e non eri abituato a valutare, abbiamo semplicemente iniziato a pensare in modo diverso. Anche per i viaggi, come chiedere il supporto in aeroporto, che è una cosa che non avevamo mai valutato di fare. Lo abbiamo fatto e abbiamo scoperto che è un servizio che funziona e che ti permette di andare ovunque. Fa la differenza tra la paura di muoversi e la tranquillità di poter ancora sognare di viaggiare ovunque . Perché Alessandra adesso sta bene, ma tra 5 minuti potrebbe essere bloccata e questo in aeroporto sarebbe un problema. Una volta facevamo 5 o 6 ore di macchina per spostarci, adesso lo facciamo lo stesso, ma dividendo i tempi. Il cambiamento c’è stato, è innegabile, ma non vuol dire che non ci permette di fare le cose”.
Quanto alla vita sociale – riprende Alessandra – viviamo in una valle sperduta, quindi la vita sociale è inesistente e questo è un aspetto che viene ritenuto negativo sotto tanti punti di vista, soprattutto perché non aiuta psicologicamente. Dall’altra però non lo sto vivendo in maniera così negativa, perché, effettivamente, mi sono resa conto che è difficile per me essere empatica con le persone in questo momento e la vita sociale questa predisposizione d’animo, almeno un po’, la richiede. Fortunatamente, il contatto costante con gli altri, al momento, non è una cosa di cui sento la necessità.
Quello che posso dire è che gli altri mi guardano in maniera diversa. Ho capito che mia mamma deve aver raccontato di me un po’ a tutti, forse in maniera triste, perché mi rendo conto che gli altri si approcciano a me dando per scontato io sia malata, ma io, di mio, non ho detto niente a nessuno. È certo però, che nessuno si scandalizza più se, ad esempio, arrivo la sera a una cena e me ne vado dopo un’ora. Nessuno ne parla. Tranne una mia cugina, che fa l’infermiera. Una volta mi ha chiesto se ci sono dei gruppi di supporto (vivo da sola con mio figlio) che possono aiutare o essere presenti in caso di bisogno. Ma, rendiamoci conto, io ho 46 anni e non è la stessa cosa chiedere aiuto adesso o quando si è più avanti con gli anni. Ora ho l’invalidità perché mi aiuta nel lavoro, l’ufficio personale stesso mi ha consigliato di fare la domanda, ma resta il fatto che non è proprio bellissimo chiedere aiuto alla mia età. Non andrei mai in Comune a chiedere un’assistenza domiciliare, ad esempio. Ho fatto la domanda per la 104 ma sempre per il lavoro. Con il Covid il telelavoro è stato per tanti una benedizione, dopo però, nel settore pubblico, dove lavoro, l’ex ministro ha cercato di ostacolarlo in ogni modo.
Poi ho un figlio di 20 anni, che è anche troppo responsabilizzato, visto che vive con me, va all’università, c’è il mutuo da pagare. Non è semplice. Quando si è in pensione, tendenzialmente, si hanno il marito o la moglie o i figli più grandi che trovano normale aiutarti, tutto gira intorno a te. Alla mia età no. Ti devi aggiustare da sola. Mio figlio è ancora giovane, ha delle esigenze, non posso pretendere chissà cosa. Anzi, lui è molto proattivo, mi aiuta tantissimo, è a conoscenza di tutto, ma ha anche diritto di avere la sua gioventù. Questo è uno degli aspetti più pesanti di chi ha il Parkinson giovanile.
Nei vari webinar in cui si affrontano i vari aspetti della malattia, perché più sei informato, meglio è, non ne ho mai trovato mezzo che dicesse “se per caso sei giovane e hai dei figli che hanno voglia di fare i figli, dovresti anche preparati psicologicamente in questo modo per reagire e affrontare la situazione”. Tutti i webinar che faccio, invece, ti dicono di fare ginnastica, cosa devi mangiare, come andare in bagno, quando bere, come prendere la levodopa, di essere attivo, di prendere appunti su ciò che ti succede. Mai uno che ti dica che, se devi parlare con tuo figlio, sappi che alla fine della discussione potresti sentirti come se ti fosse passato uno schiacciasassi addosso. Questa cosa non te la dice nessuno, però così capita.
Se mi trovo la sera alle sette a dover questionare per due ore con mio figlio, finito di discutere con lui, sono veramente da buttar via. La stanchezza con il Parkinson è davvero tanta e quando uno deve, per normalissime necessità di vita, dover interagire con concentrazione, pensando a cosa si sta dicendo, dopo un po’ la stanchezza peggiora tantissimo. La differenza rispetto a chi ha il Parkinson dopo i 60 anni è notevole, è un mondo completamente diverso.
Maurizio, come ha reagito quando ha saputo del Parkinson di Alessandra? Quando è arrivata la diagnosi, io non c’ero ancora, però quando l’ho saputo, ignoravo la malattia, non ne sapevo nulla e non ho pensato né bene, né male, non proprio bene, ma neanche male, perché non la conoscevo e basta. Infatti, all’inizio sono stati commessi tutta una serie di errori di sottovalutazione per questo. È facile raccontare, ma finché non la vivi sulla pelle, non lo puoi capire. Le parole valgono poco. Basta però tararsi su abitudini diverse. Al momento non sto pensando a cose negative, basta lei a pensarle!
Perché io sono sempre stata una persona realista – interviene Alessandra. Lui è molto più positivo, vede solo il meglio del meglio. Io no, ho sempre visto anche il lato negativo. La cosa bruttissima del Parkinson è che ti spinge proprio a non vedere altro che il lato negativo. Capita soprattutto la sera, quando sono stanca, mi assalgono i pensieri più assurdi dell’universo.
Ti faccio un esempio – interrompe Maurizio. A metà dicembre andremo a Roma dal neurologo e il suo pensiero costante è “lo so che uscirò da lì depressa e distrutta”. Ma cavolo! Andiamo 4 giorni a Roma, possibile che devi ridurre tutto a un’ora di visita dal neurologo?
Il suo ottimismo – riprende Alessandra – è importante. Una cosa molto negativa, che un po’ caratterizza molti altri parkinsoniani, è il fatto di avere vicino una persona, un familiare o un caregiver che ti compatisce o che cerca, in totale buona fede, di capire solo il tuo punto di vista. È più costruttivo lui che mi dice “guarda che questa cosa qua non è che fa tanto schifo”. Perché tu non la vedi proprio più la cosa positiva o la prospettiva differente. Quindi, se chi hai vicino invece di spronarti a vedere “altro”, si adatta a condividere il tuo punto di vista, purtroppo non ti è di aiuto. È ovvio che, comunque, chi ti è vicino debba capirti, ma un sano confronto è sempre positivo e il fatto che lui mi faccia vedere un punto di vista che non è il mio, è molto positivo.
Quale cura sta seguendo?
La levodopa e per dormire prendo un farmaco della classe degli antidepressivi che mi è stato prescritto perché ha un effetto calibrante sui neurotrasmettitori, quindi aiuta a rilassarsi. Prendo poi 5 gocce di sonnifero per i sogni, perché faccio dei sogni bruttissimi, molto vividi. Mio figlio, infatti, a volte la mattina seguente mi dice “mamma stanotte hai urlato”.
Il Parkinson cambia nel tempo, così come i sintomi. Ora è già diverso da sei mesi fa. La levodopa aiuta, ma non c’è solo il tremore, ci sono gli scatti, i blocchi, i brutti sogni, i brutti pensieri. Per di più, in questo momento, io non guido più. Un anno fa invece sì, andavo da sola a fare fisioterapia a 40 km da casa. Ora siamo in fase di rimodulazione della terapia, ma prima sono stata tranquilla per parecchi anni. È da un anno a questa parte che non trovo la giusta quadratura del cerchio. Prima c’è stato un lungo periodo di grazia durante il quale non sembrava nemmeno che avessi il Parkinson. Con la cura giusta, ad esempio, non tremo più, ma ora mi blocco, perché la malattia muta nel tempo.
La ricerca però va avanti, è attiva. Ciò che è importante è capire come evolve la malattia. Per questo più che il caregiver, il miglior amico di un giovane parkinsoniano è sicuramente il neurologo. Anche se il mio è a Roma, ci sentiamo via telefono. Nella mia zona, fino allo scorso anno, non c’era nessuna possibilità di trovare un neurologo della ASL disponile per una visita in tempi brevi. Allora, frequentando un gruppo on line di Roma, ho scoperto ParkinZone, una onlus veramente molto attiva, che ha dato vita a un progetto di medicina partecipativa per tenere vive le relazioni tra medici e pazienti anche a distanza, una specie di ospedale “virtuale”.
Tra l’altro andiamo a Roma nel periodo natalizio – interviene Maurizio – quindi tra tutti i neurologi che poteva trovare, almeno ne ha trovato uno in una bella città.
Quali sono le reali necessità di chi convive fin da giovane con una malattia come il Parkinson?
Sono tante. Ci vuole tempo per trovare il modo giusto di affrontare la vita con il Parkinson, soprattutto a 46 anni. L’altro giorno parlavo con un mio collega, che ha 56 anni e due figli, uno di 10 anni e l’altro di 6. Alla mia età aveva il primo figlio e, tra me e me, ho pensato “meno male che un figlio l’ho fatto vent’anni fa, perché adesso non avrei la forza”. Dopo una botta enorme come il Parkinson, ci mancherebbe pure avere un figlio piccolo da tirare su.
Per me è molto utile il supporto di Maurizio, anche se abbiamo dovuto più volte fare il punto della situazione, però ha capito. Lui si è preoccupato di mettere sul calendario quando devo prendere le medicine e quando siamo insieme, è sempre lui che si ricorda che devo prenderle. Quando non siamo insieme, mi manda un messaggio, perché sa che sono una testa d’uovo e che se sono impegnata a fare qualcosa mi dimentico di prendere i farmaci. E se non lo faccio, poco dopo la malattia bussa alla porta. Per chi ha il Parkinson alla mia età, avere una persona vicina che sappia stare al suo posto, capisca qual è quello giusto, che di certo non è di secondo piano, è importantissimo. È difficile capirlo, dipende dalla relazione.
Cosa si sente di dire a chi vive la sua stessa situazione?
Alla mia età è fondamentale avere, più che un caregiver, un bravo neurologo che ti segua. Il caregiver si può anche non volere alla mia età, ma un neurologo che non sbagli la cura è fondamentale. Il neurologo diventa anche lo psicologo per un malato di Parkinson, poi però devi fare tu, seguire le indicazioni e basta. Invece di pensare “non faccio ginnastica perché non mi va”, devi trovare il modo di farla, almeno una o due volte la settimana, o tutte le volte che ti senti bene. Il mio neurologo mi dice sempre che devo vivere tranquilla e prendere le medicine come fossero caramelle. Lo apprezzo davvero, dopo tanti anni, ho trovato quello giusto, però non è così semplice vivere senza pensare alle medicine e alla malattia. Magari arrivo la sera alle sei che mi si blocca la mano e non riesco più a scrivere. Posso anche provare a non pensarci tutto il giorno, ma se poi non posso cucinare per mio figlio perché non riesco a tenere una forchetta in mano non è facile essere “yogici”.
Ammalarsi da giovane, quando ancora devi costruire la tua vita, lavorare, crescere i figli, è un colpo così duro che non basta sapere che esiste una cura o l’affetto dei propri cari. È un film che non si vorrebbe mai vedere, un alieno con cui combattere ogni giorno per difendersi. La ricerca però non si ferma mai e sono tante le associazioni che si occupano di Parkinson giovanile e che sono di grande supporto. È il caso di Associazione Italiana Giovani Parkinsoniani e Azione Parkinson, che aiutano le persone con Parkinson ad essere il più indipendenti possibile, ad avere una vita socialmente attiva, che forniscono consulenze e organizzano incontri e seminari.
Fonti:
- Società italiana di neurologia, Malattia di Parkinson e Parkinsonismi
- Associazione Italiana Giovani Parkinsoniani, Che cos’è la malattia di Parkinson?