“Durante questa settimana milioni di studenti e studentesse italiane sono tornati sui banchi di scuola. Non credo si possa dire lo stesso per chi ha una disabilità, perché c’è una grande carenza di insegnanti di sostegno”.
Si potrebbe sintetizzare con queste parole la gestione della disabilità nel nostro paese. È tutto lì, in quella frase. Non servirebbe nemmeno andare oltre: la disabilità esiste, gli strumenti per gestirla al meglio anche, ma si fa poco per gestirla, includerla, ascoltarla.
Rimane un costante rumore di fondo, un fastidio che qualcuno deve prima o poi risolvere e meglio se a occuparsene sia soprattutto la famiglia.
Non esiste l’inclusione della disabilità nel nostro paese, esiste l’accettazione, la sopportazione. Condizioni che comunque hanno permesso di dialogare con la politica e di ottenere risultati. Ma il vero passo in avanti, culturale prima che politico, è includere le persone con disabilità nella vita di tutti i giorni, dando loro la possibilità di studiare, lavorare, amare, essere indipendenti, proprio come le persone sane.
Queste sono solo alcune considerazioni emerse dall’intervista che ho fatto a Vincenzo Falabella, presidente FISH Onlus, Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap, un nome che può suonare di altri tempi (ormai handicap non si dice praticamente più) e che invece rimane drammaticamente attuale: la disabilità forse non si può superare da un punto di vista clinico, ma da un punto di vista sociale, sì.
“Voglio essere molto chiaro sul punto – ha detto Falabella- per noi e il nostro mondo la disabilità non è una malattia, è l’interazione con l’ambiente circostante: più questa interazione è ostile, più noi siamo meno autonomi”.

Dottor Falabella, le elezioni si avvicinano, i programmi grondano di paroloni e promesse e la disabilità pare essere presente un po’ ovunque. Segno che le cose stanno cambiando?
In questi giorni abbiamo incontrato di versi leader di partiti politici e devo dire che in questi anni le forze politiche hanno colto l’aspetto costruttivo che il nostro mondo ha voluto portare ai tavoli istituzionali.
Ma guardando i vari programmi elettorali, leggo libri dei sogni: i temi della disabilità ci sono, ma siamo fermi ai principi.
Per questo motivo abbiamo presentato delle proposte concrete in un appello alle forze politiche: sono richieste di una cittadinanza piena e integrale delle persone con disabilità e delle loro famiglie, ed offrono suggerimenti e indicazioni per ripensare, in questa delicatissima fase del nostro Paese, complessivamente una società più giusta, coesa e rispettosa delle tante diversità.
Al di là dei libri dei sogni, su cosa dovrebbero concentrarsi i decisori politici?
Crediamo che il punto vero sia passare da un welfare di protezione (che in realtà ha protetto ben poco) a un welfare di inclusione. Perché oltre il diritto alla salute, le persone con disabilità hanno altri diritti: scuola, lavoro, relazioni.
La politica sa ascoltare i nostri bisogni, ma non riesce a soddisfarli.
Noi chiediamo un’assunzione di responsabilità nelle future politiche di intervento, che non possono essere settoriali. Di disabilità si devono occupare tutti i dicasteri. Durante la pandemia siamo riusciti a farci ascoltare e molti provvedimenti per proteggere i disabili e fragili sono stati presi grazie a questo costante confronto con le istituzioni.
Venendo ad oggi, ci sono diverse priorità concrete su cui dovrebbe concentrarsi il nuovo Governo, come ad esempio il caro bollette che si abbatterà anche sulle persone con disabilità, impoverendo ulteriormente un segmento della popolazione già provato: ad oggi la pensione di invalidità è ferma a 288 euro. Ricordiamocelo: Llimpoverimento economico genera impoverimento sociale.
Poi ci vorrebbe una riforma del welfare, come ho detto, che garantisca non solo accesso alle cure ma il godimento di una vita indipendente. E per fare questo ci vogliono investimenti strutturali: il PNRR, da solo, non basta.
Più che un problema di investimenti, non crede che in Italia abbiamo un problema culturale sull’inclusione della disabilità?
Sì, ma lei mi ha chiesto cosa deve fare la politica, e la politica può pianificare e investire. Per agire a livello culturale, occorre lavorare sul singolo, perché l’inclusione della disabilità è una responsabilità individuale. Di tutti noi, me compreso.
Ancora oggi, le persone con disabilità sono stigmatizzate, discriminate. Dobbiamo ripartire dalle scuole, formando i ragazzi all’inclusione, ma la scuola da sola non ci riesce se le famiglie non aiutano. La scuola forma, la famiglia educa. Le famiglie devono comprendere che la diversità non deve far paura. Vincenzo Falabella, che prima ancora di essere presidente FISH, marito e un padre, è una persona con disabilità che gira in sedie a rotelle, ma quando io mi confronto con gli altri, deve arrivare prima Vincenzo e poi la sedia rotelle. Oggi sappiamo che non è così.
Un po’ di responsabilità ce l’ha anche la politica che non è riuscita a trasmettere questi valori?
Sicuramente la politica non ci è riuscita, ma la contaminazione dei valori (amo molto questo termine) passa prima dai luoghi di appartenenza: dove avviene una sana contaminazione, quella comunità di appartenenza si eleva e accoglie la diversità. E qui la politica deve essere capace di sostenere questa rivoluzione, dando spazio al dibattito, continuando a parlarne, ma non per farci un favore, ma perché si è raggiunta quella mentalità per poterne parlare senza tabù, senza paure della disabilità. Anche le persone con disabilità devono fare un salto ed essere costruttive per la collettività, e non limitarsi a rivendicare diritti personali.
Parliamo dei caregiver, gli eterni abbandonati dalla politica
Su questo tema la politica italiana ha avuto un approccio sbagliato, ha strumentalizzato il bisogno essenziale dei caregiver famigliari. Al momento ci sono cinque o sei proposte di legge su questi temi mai approvate. Ogni caregiver ha un’esigenza differente, ma almeno sarebbe utile normare i principi fondamentali: essere caregiver dovrebbe essere una scelta, non un’imposizione. Invece, ad oggi, le proposte di legge sono state scritte come forme di imposizione. Il peso ricade tutto sulle famiglie, soprattutto sulle donne, che rinunciano al lavoro: le famiglie con caregiver sono tutte monoreddito. E invece il caregiver dovrebbe essere una scelta: una persona può decidere di fare questo percorso, oppure continuare a lavorare, sapendo che a casa c’è qualcuno che si sta prendendo cura del proprio famigliare. Su questo dovrebbe basarsi la legge. Altrimenti si continua a far ricadere il peso della gestione della disabilità solo sulle famiglie, a cui nemmeno viene riconosciuto il valore di quello che fanno.
Bisognerebbe dar loro più aiuti economici?
Non sono i mille euro in più a fare la differenza. Come detto, bisogna creare reti di servizi per cui un famigliare si senta sereno qualsiasi scelta farà: se fare il o la caregiver oppure lavorare. Intendiamoci: i servizi però non possono essere quelli standard, modello pre-pandemia, ma devono essere personalizzati secondo i bisogni. Non è il cittadino che deve adeguarsi ai servizi, sono i servizi che devono essere modulati sui bisogni specifici. E per fare questo, come ho già detto, bisogna puntare a un welfare di inclusione.
Ha detto che si sta confrontando con i leader politici nazionali, ma anche le Regioni hanno un ruolo importante per attuare le leggi: con loro c’è un confronto?
Viviamo in un paese con 21 Italie diverse, lo sappiamo. In questo momento ci stiamo confrontando con la politica nazionale, ma il dialogo con le Regioni esiste. In un paese civile non ha senso che in una Regione si spendano 280 euro annui pro capite per disabile, e in un’altra 5.000 euro. Noi abbiamo aperto un dialogo sia con le Regioni sia con ACI. Anche in quel contesto le differenze culturali si fanno sentire. È un lavoro faticoso. Molto faticoso.
Nel momento in cui scriviamo apprendiamo che nel Decreto Aiuti Ter sono previsti finanziamenti (120 milioni di euro) destinati agli enti di terzo settore e agli enti religiosi civilmente riconosciuti che gestiscono servizi sociosanitari e sociali residenziali e semiresidenziali per persone con disabilità. La misura dovrebbe aiutare a sostenere il caro-bollette. Si tratta di risorse destinate agli enti del Terzo Settore, non alle famiglie con disabilià che al momento non sono state oggetto di iauti specifici.
Si va avanti ad accontentare le persone con disabilità (e chi se ne prende cura), anziché includerle.