Alla luce dell’ aggressione mortale subita dalla psichiatra Barbara Capovani a fine aprile, ma anche dell’aumento considerevole di disturbi dell’umore e problemi, come definiti da Umberto Galimberti, di psico-apatia, cioè difficoltà di percezione della differenza tra bene e male, proviamo a fare qualche considerazione sullo stato dell’arte della psichiatria in Italia con due psichiatri: Mauro Emilio Percudani, Direttore del Dipartimento di Salute Mentale e delle Dipendenze dell’ospedale milanese di Niguarda e Giuseppe Tavormina, Presidente del “Centro Studi Psichiatrici” e Segretario dell’EDA Italia Onlus, libero professionista.
“I pazienti arrivano da noi nel momento in cui il loro tessuto relazionale scoppia” afferma il dottor Percudani.
“Arrivano” prosegue “quando non c’è più nessuna soluzione, mentre il percorso corretto sarebbe quello di riuscire a costruire delle reti capaci di prendersi delle responsabilità nella gestione delle persone che hanno delle fragilità. La rete sociale è molto indebolita e impoverita. E questa crisi, la crisi delle famiglie, i problemi di inclusione spesso rendono medici dei problemi che non sempre sono principalmente sanitari”.
Il dottor Tavormina racconta lo stesso quadro, aggiungendo una nota utile.
“L’attività di uno psichiatra privato è totalmente diversa da quella di un professionista che lavora nel pubblico, perché è radicalmente diversa l’utenza. Dal privato vanno coloro che soffrono di disturbi dell’umore – e sono la stragrande maggioranza della popolazione – mentre nel pubblico afferiscono anche le psicosi, i quadri cronici, i quadri in cui c’è poca consapevolezza di malattia. E questo per il semplice fatto che dal privato una persona arriva con le sue gambe, sa di stare male e nel pubblico spesso no.
Quali sono oggi i problemi più diffusi?
“Discontrollo, impulsività, sostanze, autolesività, anche aggressività. Questa situazione è cresciuta molto significativamente in questi ultimi anni”, racconta Percudiani.
“Numeri in grande crescita che arrivano in un sistema che invece non è cresciuto, anzi, è semmai in difficoltà.
La maggior criticità oggi” continua “sta nella differenza tra le risorse a disposizione e le necessità che sono crescenti. “Ci troviamo in una situazione complessa: i servizi sono stati pensati molti anni fa ma i bisogni molto cambiati”.
Perché il bisogno è cresciuto così tanto, recentemente?
“Qualcuno se lo spiega con la pandemia; forse è stato l’elemento scatenante di problematiche che ovviamente già erano presenti. C’è attualmente una fascia di bisogno che riguarda le giovani generazioni, una di cui fanno parte le persone fragili da un punto di vista sociale, e una terza rappresentata dagli stranieri, per tematiche inerenti l’immigrazione, ma anche le seconde generazioni. Stando ai dati, anche internazionali, quello che si riscontra è la crescita dei disturbi emotivi, delle situazioni di stress, della fatica che si trasforma in disagio”.
I disturbi dell’umore, sempre più diffusi, sono però ancora poco conosciuti…
“Toccano una persona su cinque” riprende Tavormina “e quindi costituiscono la patologia più diffusa del genere umano, non è assurdo siano così poco discussi e noti? I periodici cartacei sulla salute sono di poco valore, sia scientifico sia divulgativo. Noi da quasi due anni abbiamo registrato una testata gratuita e online (“Depressione Stop”) per provare a colmare questo vuoto. Per dare informazioni a tutti. Sono malattie subdole, che si mischiano alla vita quotidiana, ma che sono invece importanti da riconoscere e curare. Non fanno parte di questi disturbi le patologie psicotiche, che sono per fortuna una nicchia. Sia che si tratti di disturbi dell’umore sia che si tratti di malattie psichiatriche l’obiettivo di chi lavora come professionista in questo settore è – e deve essere – quello di minimizzare la sofferenza del singolo e i problemi sociali che possono da questa derivare, facendo una corretta diagnosi il prima possibile e attivando quindi un percorso terapeutico continuativo.
Perché, e torno all’episodio drammatico che abbiamo citato, la persona che ha ucciso la psichiatra, come sembrerebbe dai giornali, non era più seguita da nessuno, con un quadro importante? Perché i colleghi sono pochi, perché l’organico dell’ospedale è scarso, le strutture territoriali sono poche. Un paziente grave dovrebbe essere seguito da una struttura territoriale, la quale dovrebbe tessere una rete con le famiglie. Il reparto è per le situazioni acute. Il territorio serve, servirebbe, alla gestione nel tempo! La cura, ed è basilare, deve essere condivisa con le famiglie”.
Quindi bisogni molto diversificati, per tipologia e gravità, che però impattano sulla stessa tipologia di strutture e servizi?
Risponde Percudani. “L’attuale rete di strutture psichiatriche esiste dagli anni Ottanta-Novanta, segue la riforma della fine degli anni Settanta. Le strutture sul territorio, le comunità, i reparti ospedalieri sono disegnati da un modello costruito decenni fa. L’impostazione del modello italiano è quello di una psichiatria di comunità, e quindi di un territorio forte, che dovrebbe tenere in carico le persone, e reparti ospedalieri destinati a momenti di acuzie. Oggi questo modello è in difficoltà sul fronte di disponibilità di posti in comunità, delle risorse sul territorio e così l’ospedale diventa un ultimo livello di accoglienza, il che vuol dire trovarsi a gestire persone per le quali si deve trovare, ma si fa fatica a trovare, il percorso successivo”.
Ecco, stando sugli ospedali, poli ospedalieri diversi hanno sulla carta compiti e ruoli diversi o no?
“No, il punto di partenza è lo stesso – sottolinea l’esperto del Niguarda – Il modello della psichiatria si fonda sulla presa in carico territoriale, e quindi ogni area è un bacino di utenza, che fa riferimento a un polo e ad alcuni reparti. Poi è vero che alcuni ospedali hanno dei compiti specifici. Niguarda ha il compito sull’area degli stranieri, migranti, senza fissa dimora ed è un’area di cui il bisogno sta crescendo in maniera molto significativa”.
A livello personale quindi, all’interno di questo quadro complesso, quale è la sensazione prevalente? Immagino si lavori con molta tensione.
“La fatica è quella di dover gestire situazioni a cui non riesci a trovare una soluzione nei tempi ragionevoli. Bisogna convivere con un po’ di frustrazione”, afferma Percudani
Dottor Tavormina crede che sarebbe possibile, con una maggiore disponibilità di personale specializzato e una maggiore rete sul territorio, gestire anche pazienti gravi, nel tempo, senza necessità di luoghi ad hoc, e ricoveri?
“Nelle strutture ci dovrebbe essere una maggior presenza di personale specializzato, soprattutto in quelle ospedaliere”
E occorre “Fare molta informazione – riprende Tavormina – senza sosta, che è quello che noi stiamo facendo con eventi e rivista. Informazione alla gente. Nel nostro settore non ci sono analisi preventive per anticipare la diagnosi. Nel nostro settore si cresce con l’informazione. Queste cose vanno spiegate a tutti, i medici di base, ad esempio. E bisogna continuare ad aggiornarsi. E ovviamente spiegare alla gente. La conoscenza fa tutto. I nuovi psichiatri sono molto ben formati perché ricevono già durante gli anni di studi tutte le nuove informazioni che si hanno”.
“La comunità scientifica” fa eco Percudani “è cresciuta in termini di tecniche, di disponibilità di strumenti”.
Quindi, se le nuove generazioni di professionisti sono ben formate, le “persone comuni”, invece, sono pronte a gestire la loro parte?
“Il termine società – sottolinea Percudiani – può essere scomposto in tante cose; ad ogni modo sì, la società è più fragile e quindi dà meno riposte. Perché certo se ci fosse più forza nella comunità, nella capacità di gestire queste situazioni, non si arriverebbe in pronto soccorso. Le famiglie sono più fragili. Perché c’è un problema economico diffuso, perché sono meno forti in generale, perché ci sono più disagi e quindi problematiche.
Secondo lei, Tavormina, che cosa si dovrebbe o potrebbe fare?
“Noi già facciamo formazione nei licei durante la “Giornata sulla Depressione” in ottobre. Ed è importante sia per gli studenti sia per gli insegnanti. Bisogna diffondere informazioni corrette. C’è più sensibilità rispetto a dieci anni fa, ma bisogna fare di più”.
Tornando all’episodio di cronaca citato, come si possono gestire le persone con quadri clinici severi che commettono reati?
”Quello dei rapporti con la giustizia e coi percorsi giudiziari è un altro fronte – conclude Percudiani – la riforma di qualche anno fa ha chiuso gli ospedali psichiatrici giudiziari per costruire una rete, rete che però è ancora largamente incompiuta. Un fronte col quale anche noi ci confrontiamo. Il tema dei percorsi giudiziari è molto importante. È chiaro che se la legge prevede che alcune persone che sono giudicate non capaci di intendere e di volere facciano dei percorsi col fine di arrivare in strutture che ad oggi non ci sono, come le REMS, queste persone finiscano per essere ricoverate in reparto o risiedere in luoghi che non sono quelli previsti dalla legge. Il nostro attuale modello si fonda sul principio che nella comunità ci sono delle soluzioni per garantire la presa in carico delle persone che hanno bisogno. Noi lo condividiamo questo modello. Il problema è che poi nella comunità ci devono essere queste soluzioni. Ci devono essere risorse tali da poter garantire una presa in carico precoce, una cura appropriata…”
Aggiunge Tavormina: “Capire la differenza tra essere malato ed essere un delinquente è importante. Un quadro clinico severo può portare a un gesto tragico, ma non si ha di fronte un delinquente, si ha un malato molto grave. E questo non significa dare sconti di pena, ma avere intenzione di curare la persona quando è necessario e utilizzare le giuste parole”.
“Per rappresentare in un modo completo la realtà dopo averne messe in luce le tante problematiche” commenta Percudani “bisogna anche mettere in risalto la straordinaria capacità che i professionisti hanno di tenere insieme i pezzi, la forza che ci mettono tutti i giorni, la capacità di affrontare le urgenze, di dare risposte…Perché comunque chi ha bisogno, una risposta la ottiene. Il sistema sta tenendo, sta dando risposte. Le strutture sono aperte, i professionisti sono lì tutti i giorni e si riescono ad attivare percorsi appropriati tutti i giorni. Le competenze ci sono, gli strumenti ci sono. Lavoriamo sempre in equipe, composte da psichiatra, psicologo, assistente sociale, infermiere, operatori della riabilitazione e questo modello multiprofessionale tende a favorire la risposta a bisogni complessi, clinici ma anche di inclusione sociale. E questo modello è un modello che funziona. Abbiamo dei centri che invito a venire a vedere perché sono ottimi esempi di qualità lavorativa. Ci sono tante note positive. Non penso che sia solamente dicendo che esistono problemi che si esaurisce il problema. Bisogna partire dalle esperienze positive che ci sono”.
Alla luce di tutti i punti toccati è importante far notare come il sistema psichiatrico, seppur debba muoversi tra le tante problematiche citate, stia tenendo. Stia, come abbiamo scritto, formando specialisti aggiornati, utilizzando dove possibile nuove tecniche e strumenti, accogliendo in reparto e in studi privati i pazienti che il territorio non è ancora in grado di prendere in carico, perché il modello progettato è giusto, ma ha solo bisogno di tempo ( e risorse) per compiersi. E questo, come sempre in Italia, con grande dedizione, impegno, e serietà personale.