È possibile mantenersi in salute in un luogo che priva della libertà personale, taglia fuori il mondo e lascia solo l’individuo? In condizioni precarie, in ambienti che da un punto di vista igienico e sanitario, lasciano spesso a desiderare?
Per rispondere a questa domanda forse prima bisognerebbe chiedersi a cosa servono gli istituti penitenziari: a infliggere pene o a riabilitare? A punire o a fare in modo che la persona, riabilitata, una volta libera, possa stare bene e non nuocere al prossimo? La risposta a questa domanda è anche la risposta alla prima: la salute in carcere non è possibile se il carcere è solo un luogo di pena e punizione; è invece plausibile se l’individuo ristretto vive l’esperienza del carcere per riabilitarsi. Perché non c’è riabilitazione senza salute.
Queste domande sono state lo sfondo su cui si è svolto l’importante incontro organizzato nella sala polivalente della Casa Circondariale di San Vittore a Milano, lo scorso lunedì 10 ottobre. In occasione della giornata Internazionale della Salute è stato infatti presentato, alla presenza anche della vicepresidente e assessore al welfare di Regione Lombardia, Letizia Moratti, il volume “E ‘possibile la salute in carcere? Salute mentale e dipendenza: la complessità della cura”, curato da Pietro Buffa, provveditore regionale amministrazione penitenziaria della Regione Lombardia
Concettina Varango, medico e specialista in farmacologia e tossicologia e segretario nazionale della FeDerSerD – Federazione Italiana degli Operatori dei Dipartimenti e dei Servizi delle Dipendenze, Marco Riglietta, Direttore della struttura complessa Dipendenze dell’ASST Papa Giovanni XXIII di Bergamo e presidente FeDerSerD Lombardia, Roberto Ranieri, responsabile sanità penitenziaria Regione Lombardia e vice presidente SiMSPE, società italiana di medicina penitenziaria. All’evento erano presenti anche altri esperti, medici e magistrati.
Sempre più persone in carcere

Secondo un rapporto dell’Ufficio delle Nazioni Unite contro la droga e il crimine, alla fine del 2019 in tutto il mondo 11,7 milioni di persone erano detenute in carcere, con un aumento di oltre il 25% dal 2000, e di queste il 29-31% erano detenuti in attesa di processo. Le carceri operano a oltre il 100% della capacità prevista nel 47% dei paesi e territori con dati disponibili tra il 2014 e il 2019. I tassi di popolazione carceraria variano a seconda dei continenti e dei paesi: gli Stati Uniti hanno la popolazione carceraria più alta con 629 ogni 100.000, seguiti da Ruanda con 580 per 100.000, mentre il 53% dei paesi e territori inclusi nell’ultimo World Prison Population List ha tassi inferiori a 150 per 100.000 (In Italia ci sono 91 detenuti ogni 100.000 abitanti). Nonostante questi numeri e queste tendenze in continua crescita, le istituzioni continuano, in molti casi, a ignorare le condizioni di vita e di salute dei detenuti.
Carcere e malattia sono sinonimi
L’isolamento e la mancanza di contatto con l’esterno, insieme allo shock della detenzione, possono facilitare la comparsa o l’aggravarsi di un disagio psichico, che può essere diagnosticato o latente. Come ha spiegato Concettina Varango, i disturbi mentali possono essere molto diversi:
- sindrome da isolamento
- sindrome da privazione sensoriale
- stato di regressione che arriva puerilismo
- sindrome da inazione o congelamento.
E altre ancora.
Al disagio mentale si sommano disturbi dovuti ad abuso di sostanze stupefacenti: in carcere il numero di tossicodipendenti è dodici volte quello presente nella popolazione generale. Il 48% della popolazione carceraria ha un problema di tossicodipendenza, quindi quasi una persona su due.
Tornando alle malattie mentali: se fuori dal carcere i disturbi psicotici riguardano l’1% della popolazione, dietro le sbarre la percentuale sale al 4%. Se parliamo di depressione, le cifre sono ancora diverse: ne soffre il 10% dei ristretti, contro il 2-4% della popolazione generale. Inoltre, più del 65% dei detenuti soffre di un disturbo di personalità: una percentuale dalle 6 alle 13 volte superiore rispetto a quella che si riscontra nel mondo, “là fuori”.
Al convegno si è posto l’accento sul fatto che le istituzioni e la comunità non riescono ad affrontare questo tema in modo sistemico, strutturato e organizzato.
Sono pochi i medici che hanno voglia di lavorare in carcere, così come scarseggiano gli educatori. In carcere stanno male tutti, da chi vi risiede, a chi vi lavora.
Una programmazione terapeutica spesso obsoleta, la carenza di percorsi di riabilitazione, la mancanza di continuità assistenziale con il territorio sono tutte cause di questa cattiva gestione della salute carceraria.
E per una persona detenuta il rientro nel mondo libero può essere altrettanto devastante se non è supportata in modo adeguato, soprattutto se soffre di patologie o disturbi mentali. A tutto questo si aggiunge la scarsa integrazione tra le figure professionali e l’assenza o quasi di dati epidemiologici robusti.
In ogni cella, nei corridoi, nel mondo là fuori, nelle aule di tribunale, sui tavoli dei magistrati di sorveglianza, c’è la costante e ingombrante presenza di un concetto, uno stigma, un pregiudizio, che è allo stesso tempo causa e spiegazione di tutto: i detenuti, in quanto colpevoli, non meritano di essere curati.
Nonostante la nostra Costituzione, all’art. 32 ci ricordi che tutti (liberi o meno) hanno diritto alla salute.
La salute mentale in carcere

Il carcere è desolazione, disperazione, distacco. Esiste un’emergenza psichiatrica nelle carceri che si fa fatica a riconoscere: circa 1200 detenuti (su una popolazione carceraria attuale di circa 50.000 individui) sono ospitati nelle REMS, le Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza.
Da una parte, questo fenomeno può essere spiegato con il fatto che sul territorio non esiste un numero adeguato di centri che si possano occupare di chi soffre di disturbi mentali e questi individui, in molti casi, senza controllo e rete di protezione, finiscono tra le maglie della giustizia.
In altri casi, è lo stesso carcere a causare o peggiorare un disturbo mentale: il disturbo post traumatico da stress, gli attacchi di panico, la sindrome da separazione (pensiamo ai 15.000 detenuti extra comunicatori), il disturbo bipolare, le depressioni, il discontrollo degli impulsi, le reazioni auto ed etero-aggressive sono i quadri psichiatrici che il medico penitenziarista riscontra con maggiore frequenza.
Ci sono poi le comorbidità di cui tenere conto: persone con disturbi mentali e malattie infettive (come HIV) o persone con disturbo da uso di sostanze con la relativa doppia diagnosi (cioè la coesistenza nel medesimo individuo di un disturbo dovuto al consumo di sostanze psicoattive ed un altro disturbo psichiatrico).
I medici si prendono cura della “non salute”, della “sofferenza” – ha sottolineato Varango durante l’evento di San Vittore – sono quelli a cui i detenuti chiedono aiuto, anche se il medico è comunque visto non sempre in modo positivo, perché fa parte del “sistema”. Se mi domandate se potrà mai esserci una completa guarigione in carcere, io credo che in queste condizioni non sia possibile. E se E se il detenuto può accusare qualcuno di questo, quel qualcuno è il medico”.
In tutto questo c’è il drammatico fenomeno dei suicidi che non accenna a fermarsi: nel 2022 siamo già a quota 67, l’ultimo pochi giorni fa. Il 2022 si preannuncia l’anno con il numero più alto di persone che si sono tolte la vita dal 2009, quando i suicidi hanno raggiunto quota 72. Da gennaio a oggi, invece, se ne contano già 67 a cui si sommano altre 60 morti per cause diverse, alcune ancora da accertare.
Su questo la Regione Lombardia ha cercato di porre rimedio approvando poco tempo fa un protocollo per il rischio suicidario in carcere.
La salute in carcere nel resto d’Europa
Nel 1995 l’ufficio regionale dell’OMS per l’Europa ha istituito il Programma Salute nelle Prigioni (HIPP) per supportare i paesi dell’OMS-Europa ad affrontare la maggiore prevalenza di problemi di salute in carcere.
Nel 2019, è stato pubblicato un rapporto sullo stato dell’attuazione degli interventi sanitari in carcere nella regione OMS-Europa: in Europa ci sono circa 1,5 milioni di persone detenute. Il profilo di salute di queste persone elle persone detenute è caratterizzato da condizioni di salute fisica e mentale complesse e co-occorrenti (2) e il cattivo stato di salute di questa popolazione si colloca tipicamente in un contesto di svantaggio sociale radicato e intergenerazionale. I fattori di rischio per la cattiva salute si sovrappongono ai fattori di rischio per l’incarcerazione (3), come l’uso di sostanze, l’instabilità abitativa e il basso livello di istruzione (4). Anche l’incarcerazione e il processo di reinserimento nella comunità dopo il rilascio hanno un impatto sulla salute e la continuità delle cure tra i servizi sanitari nelle carceri e nella comunità è spesso carente.
L’importanza della salute nelle carceri come parte della salute pubblica è stata articolata in diverse dichiarazioni internazionali, tra cui la Dichiarazione di Trenčín dell’OMS (5), la Dichiarazione di Mosca dell’OMS sulla salute nelle carceri come parte della salute pubblica (6), le conclusioni dell’OMS dell’incontro internazionale su carceri e salute (Lisbona, 2017) (7) e le Conclusioni di Helsinki (2019) (5,7). Questo legame tra la salute nelle carceri e la salute pubblica significa che la governance della sanità penitenziaria e la continuità delle cure tra le carceri e la comunità sono di importanza cruciale.
Italia tra i primi in europa per uso di sostanza tra i detenuti
La legge sulle droghe peggiora la situazione
Secondo la tredicesima edizione del Libro Bianco sulle droghe (un rapporto indipendente sugli effetti del Testo Unico sugli stupefacenti, DPR 309/90), senza i detenuti per art. 73 (spaccio) o senza detenuti dichiarati “tossicodipendenti” non si avrebbe alcun problema di sovraffollamento nelle carceri italiane. Sempre secondo i dati raccolti dal report, 10.350 dei 36.539 ingressi in carcere nel 2021 sono causati da imputazioni o condanne sulla base dell’art. 73 del Testo unico. In totale 231.659 fascicoli per droghe intasano i tribunali italiani, dato che si mantiene ai massimi da 16 anni a questa parte, probabilmente anche per il rallentamento dovuto alla pandemia.
ll sovraffollamento delle carceri esacerba la situazione: per gli esperti intervenuti al convegno la normativa di riferimento (DPR 309/ 90) andrebbe rivista.
Ci sono nazioni, come Francia, Spagna e Germania che hanno una popolazione detenuta simile alla nostra, ma sul consumo di sostanze stupefacenti tra la popolazione carceraria, l’Italia si piazza, purtroppo, ai primi posti. “A Bergamo – ha commentato Marco Riglietta- la percentuale di consumatori di sostanze tra la popolazione detenuta ha toccato il 61%. La Turchia ha percentuali inferiori. Credo ci sia qualcosa di sbagliato nell’applicazione della normativa. Le misure alternative alla pena dipendono dal magistrato di sorveglianza ma anche dagli operatori delle carceri e dal sistema esterno: il sovraffollamento causa un patologizzazione delle carceri: tutti soffrono in carcere”.
Riglietta poi sottolinea una preoccupante sovrapposizione tra controllo e cura: “Parliamo di dipendenze e patologia da consumo di sostanze, che è una patologia a lungo decorso, da cui si può guarire, ma il percorso terapeutico può prevedere l’utilizzo di droghe. Se però c’è un controllo totale su queste sostanze anche nelle persone che si stanno curando, la cura non funziona”.
A livello mondiale, si stima che, tra la popolazione carceraria, il 30% degli uomini e i l51% delle donne abbia un disturbò da uso di sostanze.
Secondo gli autori del libro presentato a San Vittore le connessioni fra uso di sostanze e carcere possono essere di tre tipi:
- Molte persone arrivano in prigione per aver commesso reati legati alle leggi sulla droga, ma non hanno necessariamente una storia di consumo di droga alle spalle
- Alcuni detenuti sono in carcere perché hanno commesso reati connessi al loro consumo di droga (spaccio o furti per permettersi la dose) o commessi sotto l’effetto di droghe
- Altri detenuti fanno uso di droghe in prigione, ma non sono necessariamente in carcere per reati connessi al consumo di droga
Uso di droghe o meno, le persone in carcere hanno una salute fisica e mentale più povera e un benessere sociale inferiore rispetto alla prolazione generale: soffrono di tassi più elevati di malattie acute e croniche, fisiche e mentali, di malattie trasmissibili, malattie cardiovascolari, tumori, diabete, malattie respiratorie croniche; hanno maggiori disabilità e un’aspettativa di vita inferiore.
Tutto questo può portare a quelle che Alessandro Margara (citato nel volume presentato a San Vittore), noto magistrato di sorveglianza di Firenze e Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, definì: “Detenzione sociale”. Il carcere diventa un contenitore di fragilità e marginalità tale da non trovare adeguate risposte all’esterno per poter accogliere chi prima o poi uscirà dal carcere. Il mondo libero non vuole, o non riesce, a occuparsi dei detenuti. Tutto questo inasprisce l’aggressività dei ristretti, limitando quindi la possibilità di accedere a misure detentive alternative. Non è un caso se la strategia UE in materia di droga 2021-2025 si occupi anche di carcere. Una strategia che si basa su 4 punti:
- Assicurare la continuità assistenziale e terapeutica in carcere e al momento del rilascio
- Attuare misure volte a ridurre il consumo di droga: l’uso di farmaci agonisti, insieme all’implementazione di misure di riduzione dei rischi e del danno sono essenziali per gli istituti di pena. Test e screening per hiv ed epatite dovrebbero essere la norma anche in carcere
- Prevenire l’overdose e continuare le cure una volta rilasciati (ad esempio, distribuendo naloxone a chi esce)
- Eliminare la disponibilità di droghe nelle carceri
Sulla necessità di fare screening in carcere Roberto Ranieri è piuttosto tranchant: “Bisogna iniziare a parlare di equità degli interventi di salute per la persona detenuta: noi pensiamo, giustamente, che un soggetto tossicodipendente sia più soggetto a malattie infettive, anche perché spesso non sa né di essere malato né di poter trasmettere l’infezione. Ma noi, come medici, abbiamo un preciso dovere che è quello di aumentare gli screening delle malattie infettive in carcere. Perché il carcere può diventare occasione di screening per tutte quelle persone che fuori di qui non potrebbero (o non riescono) accedervi. Chi soffre di tossicodipendenza ha rischi di salute superiori rispetto agli altri: può sviluppare endocardite (che ha picchi di mortalità del 50%), embolizzazione (dovuta all’uso scorretto delle siringhe), patologie respiratorie”.
Sul fatto che le carceri potrebbero diventare hub di salute per la popolazione fragile che vi entra ( e che se fosse rimasta fuori, non avrebbe potuto accedervi per problemi di accesso, di cultura e altre problematiche), la Lombardia ha già dimostrato decisivi passi in avanti, insieme ad altre realtà europee.
A maggio del 2021 ha preso il via il progetto europeo RISE VAC, Reaching the hard-to-reach: increasing access and vaccine uptake among the prison population in Europe’ , finanziato dal terzo programma dell’UE per la salute per un totale di 1.585.202,86 euro. Terminerà nel 2024. L’obbiettivo è aumentare la copertura vaccinale nelle prigioni di tutta Europa. Il progetto, guidato dall’Università di Pisa, coinvolge altre importanti istituzioni accademiche e sanitarie, come l’ASST Santi Paolo e Carlo di Milano e quelle di diversi altri paesi europei, come Cipro, Francia, Germania, e paesi extra UE come Moldavia e Regno Unito come. Lo scorso 31 maggio i protagonisti si sono riuniti in presenza a Milano, nella casa circondariale di San Vittore, per fare il punto sui risultati raggiunti e quelli da raggiungere. Nel mondo, il 90% delle carceri ha ricevuto il vaccino anti COVID, ma per le altre vaccinazioni i tassi sono molto più bassi. Questo si deve a diverse ragioni, tra cui l’esitanza vaccinale da parte dei detenuti, problemi logistici (supply chain) e scarse risorse umane. Senza contare che il 50% dei paesi OMS non ha sistemi comunicanti tra il sistema sanitario nazionale e quello penitenziario (come in Italia). Tra le varie proposte emerse durante l’incontro, alcune riguardano il superamento dell’esitanza vaccinale tra i detenuti, da ottenere sia con un dialogo costante, sia con una diversa programmazione delle dosi I programmi di vaccinazione non sono solo a beneficio degli individui e delle strutture carcerarie, ma per l’intera comunità. I muri della prigione sono permeabili e le vaccinazioni in questi contesti impedirebbero la trasmissione alla collettività, attraverso il personale, i visitatori o i residenti che tornano nelle loro comunità. La best practice della vaccinazione anti- COVID-19 si potrebbe ripetere anche per tutte le altre vaccinazioni.
Iniziare ad ascoltare
Ascoltare e fare domande. Mostrare interesse. Donare tempo. Semplici azioni che possono fare la differenza per i detenuti che soffrono di disturbi psichici. Lo ha spiegato nel suo intervento Davide Broglia, psichiatra dell’Unità operativa di sanità penitenziaria, ASST di Pavia e membro GIMBT – Gruppo Italiano MBT. La MBT, Trattamento basato sulla Mentalizzazione, è “la capacità di avere un pensiero sugli stati mentali come condizioni distinte anche se potenziali determinati del comportamento” (Bateman & Fonagy, 2004).
“Un paio di settimane fa – ha raccontato Broglia – mi hanno chiesto di visitare un detenuto, un omone di quasi due metri, Mohamed, molto magro, con occhi stralunati che si è messo a piangere, spiegando di essere stato inseguito in sezione da un gruppo di cani randagi. Uomo di Dakar, scuro di carnagione, mi spiega che in altre sezioni non era mai capitato, ma nella sezione ottava c’erano i fantasmi. Mi dice che la stessa cosa gli era capitata diversi altri prima, in una casa in cui abitava con la moglie italiana, ma era sicuro che questi cani non erano stati mandati dall’Africa per qualche ripercussione nei suoi confronti, ma erano proprio dentro il carcere. Lui questi cani li vedeva. Mi sono interrogato su questo episodio. Non è l’unica persona che ha questo tipo di pensiero, spesso i pensieri dei detenuti si fanno concreti. Il carcere diventa come l’Overlook Hotel del film Shining”.
I detenuti hanno pensieri concreti, li materializzano, li percepiscono reali.
“Tutti noi abbiamo capacità di sognare, pensare e riconoscere i nostri stati mentali come tali e questo accade attraverso un legame di attaccamento, alla mamma, al caregiver, all’ambiente che ci accompagna nella nostra esperienza, che deve essere adeguato, contingente, paziente, per farci imparare le nostre emozioni. Nel disturbo antisociale di personalità (disprezzo pervasivo verso regole e leggi altrui), quello più diffuso tra i detenuti, c’è un attaccamento insicuro che impedisce il rapporto con l’ambiente che vuole contenere l’individuo (il carcere). Contenere diventa sempre più difficile”.
In pratica, per Broglia, un comportamento disfunzionale, come quello di un detenuto con disturbo anti sociale, diventa ancora più difficile e lo spazio per l’ascolto da parte dell’ambiente che lo contiene, si riduce sempre di più.
“Occorre ascoltare di più le persone detenute – ha affermato lo psichiatra – perché senza ascolto e legame di attaccamento, di curiosità positiva, senza questo, questi pensieri negativi dei detenuti si addensano e si appiccicano sulle pareti del carcere, formano dei fantasmi che infestano la mente del detenuto”.
Broglia ha provato ad applicare l’ascolto attivo con una persona in carcere autolesionista: ingeriva qualsiasi cosa, si tagliava con qualsiasi oggetto.
Era difficile contenerlo. “Ho deciso di fare una cosa: vederlo e ascoltarlo tutti i giorni – e con mio stupore, lui ha iniziato a raccontare la sua storia. I comportamenti autolesionisti sono diminuiti, finché un altro detenuto anziano ha accettato di prenderlo in camera con lui. E per ora, regge”
Don’t forget the prisoner
La fine del 2021 ha segnato la morte dell’arcivescovo emerito di Cape Town e premio Nobel per la pace, Desmond Mpilo Tutu, attivista anti-apartheid e leader morale che non ha bisogno di presentazioni. In un commento pubblicato su The Lancet nel 2016, come parte di una serie sull’HIV e le infezioni correlate nei prigionieri, Tutu ha scritto del diritto alla dignità e alla compassione per tutti coloro che hanno bisogno di cure mediche, compresi quelli dietro le sbarre, e ha fatto appello al “Non dimenticare il prigioniero”.
Everyone has a right to dignity when they need medical care. And everyone has a right to compassionate medical treatment if they are suffering from diseases like HIV or tuberculosis. And by everyone, I also mean our brothers and sisters behind bars. Our late, beloved leader, President Nelson Mandela, contracted tuberculosis while he was a prisoner on Robbin Island. Our country, indeed all of humanity, is so very fortunate that Madiba survived to help lead us out of the darkness of Apartheid. But so many others in prisons and jails, in detention or awaiting trial, are less fortunate. Imagine, if you can, languishing with untreated HIV or tuberculosis, and lacking the freedom to do anything about it. Fearing HIV exposure or acquiring tuberculosis, and being denied the basics of prevention. Across Africa, our prisons and jails are overcrowded with men and women who are at risk for HIV and tuberculosis, or who are already living with these treatable infections—but who are being denied the care they so urgently need. We have left them behind. This is unacceptable to God and it should be unacceptable to all of us. For when we take away a man or a woman’s freedom, we must take on the responsibility to provide for their wellbeing—with adequate food, decent sanitation, with the right to representation, and to a timely trial—but also with prevention and treatment for these deadly diseases.
God has not forgotten the prisoner, the detainee. No one is outside the circle of his love. But we have forgotten, and we must do better. I urge all of you working on HIV and tuberculosis to remember those among us who are not free. Keep them in your thoughts and actions, build them into your budgets and plans. When you care for people suffering from AIDS and tuberculosis without discrimination, especially for those forgotten by others, you wipe a tear from God’s eye.
His Grace, Desmond M Tutu, Archbishop Emeritus of Cape Town
Fonti
- Fazel S, Yoon IA, Hayes AJ. Substance use disorders in prisoners: an updated systematic review and meta-regression analysis in recently incarcerated men and women. Addiction. 2017;112(10):1725-1739. doi:10.1111/add.13877
- Aebi, M. F., Cocco, E., Molnar, L. & Tiago, M. M. (2022). Prisons and Prisoners in Europe 2021: Key Findings of the SPACE I report. Series UNILCRIM 2022/3. Council of Europe and University of Lausanne.
- The Lancet Global Health. Withholding liberty, not the right to health. Lancet Glob Health. 2022;10(2):e154. doi:10.1016/S2214-109X(22)00008-0
- P. Buffa, R. Ranieri, M. Riglietta, C. Varango, “E’ possibile la salute in carcere? Salute Mentale e Dipendenze: la complessità della Cura”, CE.R.CO. Edizioni, 2022