Te ne parlo adesso.
A distanza di qualche settimana. Perché, avendolo vissuto sulla mia pelle, ho avuto bisogno di un po’ di tempo per prendere quella distanza dalle mie emozioni necessaria a presentarti l’evento nella sua materialità.
Insomma, dovevo rientrare nei miei “panni” di saggista.
Ecco la storia del 7 maggio 2022.
Un giorno che è stato mio, ma che adesso diventa anche tuo.

Katia Bovani
Pisa.
Arrivo di corsa e prendo un taxi che mi porta al convento delle Benedettine dove si svolgerà il primo Behcet Lab organizzato dalla Behcet Clinic di Pisa in collaborazione con la SIMBA (Associazione Italiana, sindrome, Malattia di Bechet e Behcet like) e dalla SIMeN, vale a dire la Società Italiana di Medicina Narrativa. Si tratta di un laboratorio di medicina narrativa, in cui i pazienti e le pazienti raccontano le loro storie di cura.
Perché mi trovo qui? Perché ho la sindrome di Behcet, una malattia rara a carattere autoimmune le cui manifestazioni sono varie e non piacevoli.
Si muore di questa malattia? No o, almeno, lei non è causa diretta della morte di una persona.
Incide sulla qualità della vita? Sì, indubbiamente.
Il Behcet Lab
Sono stata invitata dalla dottoressa Rosaria Talarico, direttrice della Behcet Clinic presso l’Ospedale S.Chiara di Pisa, nonché mio medico di riferimento. Rosaria Talarico è una donna che stimo moltissimo non solo per la dirittura etica con cui esercita la professione (ha scelto di lavorare solo nella Sanità pubblica) ivi compresa la ricerca, ma anche per la cura tecnica e umana con cui segue il paziente.
Insomma, arrivo al convento ed entro.
Ancora è presto, infatti trovo soltanto una giovane ragazza accompagnata dal papà. Sì, perché a questo laboratorio sono stati invitati 20 pazienti Behcet ed i rispettivi caregiver dal momento che la Behcet Clinic non si limita a curare chi è colpito da questa malattia, ma si prende cura anche di coloro che convivono col paziente.
Infatti, è attiva la piattaforma Behcet Talk, un programma educazionale e di supporto il cui scopo è quello di rendere i pazienti ed i familiari di questi ultimi, “consapevoli della malattia e del suo impatto nella vita quotidiana” come si legge nella presentazione della piattaforma. Perché “Essere informati e acquisire un buon livello di consapevolezza aiuta infatti non solo a convivere meglio con la malattia, ma anche a migliorare la gestione della malattia sia da parte del medico che del paziente stesso” (ibidem).
Finalmente arrivano tutti i pazienti (siamo 18 donne, 2 uomini e relativi genitori o compagni o coniugi) e il team formato dalle donne che hanno organizzato il laboratorio, preparato tutto il materiale necessario e che ci accompagneranno in questa giornata.
Vedendole, provo una sensazione di attesa mista ad “ansia positiva”.
Sento che sarà un giorno impegnativo, ma che segnerà una tappa significativa nel mio diventare “paziente empowerizzato”, cioè un paziente consapevole:
- di sé: ascoltare il proprio corpo, conoscerlo, sentire la propria parte emotiva, accoglierla;
- della malattia nei diversi aspetti del suo essere immanente, delle sue manifestazioni;
- di sé in relazione alla malattia: in che modo si manifesta nello specifico, stabilire della ricorrenze, riconoscere le avvisaglie, saper distinguere tra espressioni del Behcet e manifestazioni altre malattie.
“Sento” fortemente il momento
Lo percepisco guardando le donne del team professionale che ci ha riunite: la dott.ssa Talarico, la dott.ssa Stefania Polvani sociologa e Presidente della SIMeN, la dott.ssa Arianna Manzo psicologa e la dott.ssa Diana Marinello Project Manager esperta nell’approccio alla Medicina Narrativa.
Ok, il laboratorio sta per iniziare .
E non solo per noi pazienti, ma anche per i caregiver che sono chiamati a svolgere un laboratorio distinto dal nostro.
Ci viene consegnato il materiale necessario: un quaderno di lavoro, la cancelleria e un piccolo oggetto di cui ti parlerò al termine di questo articolo.
Entrati nella stanza dedicata al nostro laboratorio, rimango subito un po’ sorpresa nel vedere, sistemato con cura, un insieme di carta colorata, adesivi, post it, pennarelli. Non riesco a darmene una spiegazione, ma… Annalisa Manzo ci porta subito dentro il percorso.
Apriamo il quaderno di lavoro e ci troviamo davanti questa foto
Per qualche minuto, solo un silenzio profondo.
Per un malato di Behcet, le parole come “futuro”, “opportunità” sono parole complesse e complicate.
Ma, con tono rassicurante, caldo e fermo ( e che mi è piaciuto moltissimo perché scevro da paternalismo), Annalisa e Diana ci avviano al cuore del laboratorio: la scrittura.
Il compito è quello di entrare emotivamente in noi stessi e rispondere, in forma narrativa ed entro un tempo prefissato, a queste domande:
- Quali emozioni hai provato nella fase della scoperta (della malattia) ?
- Quali emozioni hai provato nella fase del cambiamento?
- Quali emozioni provi riguardo le tue relazioni?
- Quali emozioni provi pensando alle opportunità?
- Quali emozioni provi pensando al futuro?
- Come ti senti riguardo le pagine precedenti?
Domande non difficili. Ma importanti.
E rispondere “in forma narrativa” non significa, necessariamente, esprimersi mediante la scrittura, ma anche tramite disegni, collage, e in ogni altra forma grafica vogliamo: questo il senso del materiale che ci era stato preparato.
Prima di iniziare, una paziente precisa di essere una persona dall’eloquio estremamente sintetico a causa del suo carattere molto riservato e poco incline a comunicare se stessa e i propri malesseri. Sulla scia di questo coming out, un’altra donna, timidamente si fa avanti per pronunciare un “Anch’io”.
Cominciamo
Personalmente, non ho manualità; inoltre la mia vita è incentrata sulla scrittura, ma un buon numero di pazienti (donne) risponde alle domande con disegni, utilizzando adesivi, colori, etc.
Sbircio, allungo gli occhi fin dove mi è possibile e vedo dei lavori davvero espressivi nei quali il dolore, la rabbia, l’impotenza, la paura assumono plasticità, sono tridimensionali.
Lavori che comunicano immediatamente e senza possibilità di equivoco le sensazioni della singola paziente: i colori occupano uno spazio e, nello stesso tempo, delineano i contorni di un vissuto, ne trasmettono l’intensità e lasciano percepire la pressione che le emozioni di quel vissuto riverberano nella quotidianità dell’oggi.
Scade il tempo e Arianna ci introduce alla restituzione.
Il momento della “restituzione”
E, anche stavolta, la scrittura compie quel piccolo miracolo che ho visto altre volte e che si declina in modo diverso a seconda della persona che tocca: la prima a prendere la parola è proprio colei che aveva precisato di non essere naturalmente portata alla condivisione di sé.
Dopo qualche incertezza iniziale, il suo eloquio si fa fitto e veloce rendendo chiarissimo lo stato d’animo che ha vissuto non solo allorché ha ricevuto la diagnosi, ma proprio nel pensare a se stessa nel futuro.
Da lei parte il confronto, il racconto di se stessi composto dalle lunghe peregrinazioni presso medici specialisti per cercare di comprendere cosa ci fosse all’origine dei dolori, degli ictus, delle afte, dell’impossibilità di muoversi e dei sintomi più specifici caso per caso.
Alcuni raccontano di essersi sentiti sollevati quando hanno ricevuto la diagnosi perché, finalmente, non solo il loro stato di salute riceveva la dignità del nome, ma anche la persona cessava di essere trattata con sufficienza dai parenti.
E ancora, il racconto e la lettura dei propri scritti si spostano:
- sulla rabbia che si focalizza su una domanda: “perché proprio a me?”;
- sull’incertezza legata al pensiero del futuro;
- sulla speranza nei protocolli farmacologici e nella ricerca;
- sul valore del “tempo” e del diverso rapporto che si instaura proprio col fattore temporale che non può essere disperso in attività – anche sociali – che privano inutilmente di energie.
Registro che:
- nessuno di noi, neppure i più giovani fanno accenno ai fattori di “normalità” della quotidiana conduzione della vita come praticare uno sport;
- la restituzione afferente le “opportunità” dice molto sul lavoro interiore da svolgere per vedere e coltivare l’opportunità dentro la malattia.
Terminata la sua prima parte, il laboratorio continua con un secondo momento guidato dalla Presidente Stefania Polvani la quale, avvalendosi anche del linguaggio metaforico, ci porta dentro l’ascolto, l’interpretazione e la consapevolezza di noi stessi.
Ho vissuto questa esperienza da paziente, sì, perché ho voluto vivere il laboratorio, ma per me è stata un’esperienza tecnica che mi ha veramente toccata.
Già al termine del primo laboratorio mi sono apparsi chiarissimi il senso e l’importanza della medicina narrativa. Così come, in modo altrettanto evidente, ho compreso la lungi-miranza ( nel senso etimologico della parola, cioè “mirare da lontano”, “vedere lontano”) della Dott.ssa Talarico nel voler introdurre questa tecnica di scrittura nella Behcet Clinic.
Una scrittura che -per usare le parole della Presidente Stefania Polvani – “è una metodologia di intervento, di pratica basata sulla narrativa”
Cosa significa “narrare”?
Tutta la nostra vita è composta da narrazione perché il nostro cervello organizza il pensiero e lo esprime in forma di racconto.
Sul piano formale non c’è una gran differenza tra Cappuccetto Rosso e il resoconto che ti fa tuo figlio quando gli chiedi “com’è andata oggi?”.
Oppure pensa a te stesso/a quando descrivi a qualcuno una cena particolare, una vacanza, un periodo della tua vita… ciò che fai ascoltare al tuo interlocutore del momento altro non è se non narrazione di una tua esperienza.
Trasportare questa dinamica dialettica prettamente umana nel campo della malattia e/o degli stati fisici rilevanti da un punto di vista sanitario, significa dare corpo alla medicina narrativa.
Stefania Polvani è stata chiarissima nello spiegare quale sia la funzione di questo tipo di narrazione.
Anzi le funzioni della medicina narrativa, tra cui:
- Funzione terapeutica.
Sì, la medicina narrativa entra nella cura. Un paziente che:
- osserva la propria malattia, i sintomi, le reazioni, che interviene su stesso tramite l’osservazione e la rilevazione dei nessi di causalità tra fatti e stato acuto;
- ascolta se stesso, ciò che accade oppure cambia, prende altra forma nel proprio corpo e nel proprio stato d’animo;
- mette in forma di racconto ciò che vive nel fisico e nelle sue emozioni e, quindi, esternalizza il vissuto o l’attuale, notifica a se stesso ciò che sente a ogni livello della propria persona;
è un paziente consapevole di sé e della malattia. Ed è proprio questa consapevolezza ad aiutarlo ad aiutare i medici nella scelta terapeutica specie nell’ambito delle terapie tailor made.
Il paziente consapevole sa quando è il momento di alzare la soglia dell’attenzione su se stesso, quando è giunto il momento di contattare il proprio medico per segnalare qualcosa.
- Funzione clinica.
La narrazione del paziente rientra tra gli strumenti che orientano il medico in relazione:
- alla scelta terapeutica relativa al singolo paziente che potrà avvantaggiarsi di una cura quanto più possibile modellata sui suoi specifici problemi;
- al più ampio campo della conoscenza della malattia;
- alla ricerca sulla malattia.
Ma c’è un altro ruolo che la Medicina Narrativa svolge ed è quello che si “reifica” nel laboratorio.
Quello è il luogo dell’ “allenamento”.
Allenamento all’ascolto di sé. Il racconto di se stessi presuppone la postura di un duplice ascolto: di se stessi e della malattia. Percepirsi, sentirsi, sentire come la malattia corre e si esprime dentro il proprio corpo, ascoltare come il corpo reagisce e come l’interazione tra corpo e malattia influiscono sulla nostra psicologia.
Allenamento all’osservazione. Il laboratorio offre gli strumenti per osservare se stessi nella relazione, il mondo che ci circonda, il proprio medico. Ed è molto importante questo passaggio perché una corretta osservazione è il prodromo alla equilibrata interpretazione dei fatti che ci accadono, dei malesseri che proviamo, del modo di comunicare questi ultimi ai medici di riferimento.
Allenamento alla condivisione. Il laboratorio è il luogo dello scambio, della comunicazione. Condividere la propria esperienza con quella di altri pazienti ci corrobora da un punto di vista cognitivo: ascoltando gli altri si ricavano informazioni, spiegazioni e tutto ciò che è utile per capire il modo in cui la malattia si manifesta in noi. Inoltre, lo scambio ci sostiene emotivamente e psicologicamente: innalza il livello di autoconsapevolezza, si colgono alternative, si affacciano intuizioni e si comprende dove e come impiegare le proprie risorse.
In quanto “metodo”, la Medicina Narrativa è “importabile” in qualunque ambito di esplicazione del rapporto medico-paziente.
Ed è davvero uno strumento potente.
Una nuova frontiera di cura
La giornata del 7 maggio si è conclusa con un bilancio personale molto positivo e con la convinzione, ricavata dall’osservazione del gruppo, che
questo nuovo fronte della scrittura è di vitale importanza non solo sul piano individuale, ma anche sociale. Perché innesta quel circolo virtuoso in base al quale il malato è una risorsa per il progresso della scienza.
L’energia che ho ricevuto è stata davvero forte.
E ho voluto legarla proprio al piccolo oggetto che ho trovato assieme al materiale di lavoro: una boccetta con un pezzetto di carta sul quale scrivere il proprio “messaggio nella bottiglia”.
Lo tengo e lo porto con me. Con il mio messaggio.
Rivedi la diretta sulla Sindrome di Behcet con le testimonianze di Katia Bovani e la dottoressa Rosaria Talarico
