Luca è un uomo di sessant’anni con la sindrome di down che vive pienamente la propria esistenza grazie a una famiglia che non si è mai data per vinta, in un’epoca, gli anni 60′-70′, in cui integrare un bambino con sindrome di Down era molto più complicato oggi. Quella di Luca è una storia di forza, coraggio e determinazione, nella quale la diversità si coniuga con l’opportunità di migliorare se stessi, perché è proprio nel particolare che si cela un mondo che vale la pena scoprire. L’ho conosciuto al mare, facciamo le vacanze nello stesso posto. E mi sono fatta raccontare la sua storia da sua sorella, Carmela.

“Zio Luca”, come lo chiamiamo tutti affettuosamente, è una persona con mille interessi, il nuoto, la lettura, la musica classica, l’opera. Ha sempre adorato andare a teatro della Scala di Milano con sua madre che, sin da piccino, ne ha assecondato le inclinazioni, aiutandolo a coltivare le sue passioni. Ci siamo conosciuti in spiaggia io e Luca, essendo vicini di casa durante il periodo estivo, frequentavamo lo stesso stabilimento balneare.
Se ne sta sdraiato sotto il suo ombrellone, assorto tra le righe del suo libro preferito, rigorosamente di carattere storico, che mette da parte solo quando si prepara a fare un tuffo per ristorarsi dal caldo: indossa pinne ed occhialini, si immerge, per poi riemergere in mare aperto, dove si trattiene a lungo. Perché ama contemplare la quiete delle acque, lontano dal frastuono della gente intorno a sé.
Lo zio Luca è una persona splendida con una particolarità, una copia in più del cromosoma 21. La sindrome di down è una anomalia che comporta un ritardo dello sviluppo fisico e mentale, con caratteristiche specifiche del cranio e del volto e spesso bassa statura. La sua storia mi conferma quanto però, con una famiglia accanto che ti sostiene, quella copia in più del cromosoma 21 possa essere vissuta come qualcosa di assolutamente speciale.
Come mi racconta sua sorella minore, Carmela.
A voi fratelli come vi è stata comunicata la patologia di Luca?
“Sono l’ultima di tre fratelli, il maggiore è Luca, che ha circa otto anni più di me. Quando ero piccola, intorno ai cinque anni, un giorno, una ragazzina più grande di me mi chiese se mio fratello fosse “mongoloide”. Non avevo mai sentito quella parola prima d’allora, così andai a chiedere a mia madre senza nemmeno capire cosa le stessi chiedendo di confermare… Fu questo il momento, credo, in cui venni a conoscenza del fatto che mio fratello aveva qualcosa che lo rendeva diverso dagli altri bambini. Moltissimi anni dopo, mia figlia, di appena quattro anni, si rese conto per strada di aver visto qualcuno stranamente somigliante allo zio e mi chiese il perché di quella somiglianza tra estranei. Anche io fui colta di sorpresa come mia madre decenni prima, e cercai le parole giuste per spiegarle quello che la stupiva.
Più di ogni spiegazione comunque, sia per me che per le mie figlie, credo che la condivisione della quotidianità sia stata la chiave per comprendere la particolarità di mio fratello.
Con le sue nipotine, ma con i bambini in generale, Luca ha una sensibilità diversa, è premuroso e molto protettivo.
Ha una marea di soldatini, che fanno parte di una collezione di pregio a cui lui tiene molto, un vero e proprio campo di battaglia allestito da lui stesso sul tavolo del soggiorno di casa, dove trascorre delle ore, non permettendo a nessuno di toccare il suo “esercito”, un privilegio concesso solo a Malika e Sofia, le sue adorate nipotine, alle quali non sa dire di no.

In che maniera è stata accolta la “diversità” nella vostra famiglia?
“Essendo l’ultima nata in una famiglia in cui questi discorsi erano già stati digeriti e accettati da tutti, direi che l’ho sempre vissuta come una cosa normalissima. Il fatto che mio fratello fosse oggetto, suo malgrado, di moltissime attenzioni e cure, facesse un sacco di attività dallo judo all’equitazione, avesse sempre appuntamento con qualche specialista, aveva senso. Era nato con uno svantaggio, non so bene se interamente dovuto solo alla sindrome di down e doveva fare di tutto per recuperare quanto più possibile. Sono sempre stata molto orgogliosa della mia famiglia che, in anni pionieristici come gli anni ’60-’70, non ha mai smesso di battersi affinché mio fratello potesse avere le stesse opportunità dei suoi coetanei”.
Quali sono state le maggiori difficoltà che avete incontrato?
Inizialmente credo che la parte più difficile sia stata la mentalità diffusa che ogni sforzo per migliorare la qualità di vita di Luca fosse vano, sia dal punto di vista medico che sociale. A quei tempio, bambini come mio fratello erano destinati a scuole “speciali”. I miei genitori si sono battuti affinché avesse un’istruzione regolare e potesse andare nella stessa scuola che in seguito avrei frequentato anche io. In qualche modo fu un apripista, dopo di lui, negli anni in cui frequentavo le elementari, ebbi la fortuna di vedere accolti altri bimbi con la sindrome di down o con difficoltà di altro genere. Anche nel mondo del lavoro, non senza fatica, mio fratello entrò appena ventenne. Non penso sia stato semplice per lui confrontarsi quotidianamente con un ambiente rigido e non sempre accogliente come quello lavorativo.
Anche questa è stata una lezione di vita per me, oltre che motivo di orgoglio. In generale, un po’ tutti i risultati ottenuti da mio fratello, anche quelli negativi, mi hanno permesso di acquisire uno sguardo con un valore aggiunto e di avere una prospettiva differente sulle cose. È grazie a lui che sono diventata la donna di oggi.
Noti differenze nel modo di approcciarsi alla sindrome di down rispetto al passato?
Dal punto di vista culturale molto è stato fatto rispetto al passato. Oggi è naturale aspettarsi che ragazzi con la sindrome di down facciano sport, vincendo titoli notevoli, come la nazionale di basket. Resta tuttavia ancora molto da fare, perché se è vero che in certi contesti l’accettazione della diversità, almeno formalmente, è scontata, le difficoltà quotidiane, il pregiudizio, la solitudine delle famiglie, soprattutto dopo l’età scolare, secondo me sono rimaste le stesse di un tempo.
Come si comporta Luca con voi familiari e come invece si pone con gli altri?
“Mio fratello è una persona molto affettuosa e fiduciosa. Direi che è, più o meno sempre, se stesso con tutti. Adesso che siamo tutti e due “anzianotti” mi piacerebbe poter trascorrere più tempo insieme ed andare con lui a rivedere posti che entrambi ricordiamo con nostalgia”.
Quale è l’espressione che ti ferisce di più riferita a lui?
Non è tanto un’espressione riferita a lui a ferirmi, quanto piuttosto la parola “mongolo” in ogni sua accezione, comunemente usata per alludere ad una persona poco intelligente, è per me una cosa inaccettabile. Mi sono sempre impegnata a farla “tornare indietro” cercando di spiegare a chiunque la usi che è una parola offensiva che ferisce in generale le persone alle quali è riferita, essendo diventata ormai un intercalare utilizzato in vari contesti sociali, che mortifica ancor più chi è affetto da sindrome di down, oltre che i loro cari. Una lotta la mia, con la quale credo di aver rotto le scatole a tutti, amici, conoscenti, estranei, colleghi, figlie.
Sono consapevole che sebbene non sia una battaglia che si può vincere da soli, non si possa nemmeno restare inermi dinanzi all’insensibilità della gente.